A trent’anni da uno dei più gravi omicidi che hanno sconvolto l’Italia, Roberto Saviano ricorda il giudice Falcone con il libro: Solo è il coraggio (Bompiani, aprile 2022), in cui offre l’immagine di un uomo, un servitore dello Stato, che non è stato un eroe ma che ha affrontato la vita con coraggio, nelle vittorie e nelle sconfitte, dovute agli intralci e ostacoli che gli hanno teso, per impedirgli di portare a compimento il suo lavoro, ovvero combattere la criminalità, Cosa Nostra, la mafia. Le sue sconfitte dipendono dagli stessi uomini delle istituzioni, che si sono elevati a difensori dello stato di diritto, dell’indipendenza e della libertà della magistratura, facendo il gioco della criminalità e delle sue complicità, adducendo più di un motivo per diffamarlo, attaccarlo, isolarlo, negandogli incarichi e ruoli che gli avrebbero permesso di esercitare meglio il suo lavoro nell’interesse del Paese.
Giovanni Falcone ha modificato tutto, ha dato luce e speranza dove le ombre sembravano prevalere, ha cercato di cambiare il corso degli eventi, ha indotto un’organizzazione a fare passi indietro, a gestire diversamente le sue modalità di azione. È stato lasciato solo. È stato fermato. È stato infine ucciso. Eppure ha sempre creduto che si potesse cambiare.
Del giudice Falcone c’è una ricca ed attenta bibliografia, numerosissimi scritti e saggi; si conoscono aneddoti, vicende e la devastante deflagrazione, che ha scosso l’immaginario popolare, compiuta il 23 maggio 1992 a Capaci. La mafia di Totò Riina doveva dare un segnale allo Stato: usare una violenza inaudita, dopo che in passato aveva trattato, imposto la propria presenza collusiva e connivente, investendo in quella zona grigia e nella passiva accettazione, accondiscendenza psicologica, che significava controllare il territorio e la sua popolazione. Il personaggio Falcone aveva duramente colpito con il maxi processo; ora la sua figura rappresentava la possibilità di infliggere altri colpi durissimi alla criminalità organizzata, spingendosi con un’azione graduale a sconfiggere il mostro, e forse rompere il muro di omertà incidendo sulle coscienze civili.
Ecco la grandezza del giudice, la cui storia è raccontata da Saviano come un romanzo, avvincente e pieno di connessioni e simbologie. È il ricordo di un uomo assassinato, dotato di grande coraggio. È per analogia lo stesso di Roberto Saviano, che continua a lottare contro quei poteri deviati, quella criminalità che pervade il tessuto sociale, scrivendo e portando alla luce verità inconfessabili e inspiegabili.
Lo scrittore deve raggiungere la moltitudine, deve ricostruire la storia, romanzarla se è necessario, e renderla meglio comprensibile. Utilizza lo stesso metodo dei suoi precedenti romanzi, che è la voglia di divulgare e avvincere il lettore o l’ascoltatore: la capacità narrativa, la storia vera raccontata con le giuste emozioni, con la precisa e puntuale ricostruzione.
Scrive all’inizio del libro: “Questo romanzo racconta una storia vera. Su diversi episodi esistono più versioni e molteplici ipotesi; di volta in volta ho scelto quella che consideravo più verosimile e convincente: di questo lavoro do conto nella nota bibliografica che accompagna ogni singolo capitolo, in fondo al volume. Quando con l’immaginazione ho connesso fatti, colmato vuoti, ricostruito dialoghi, ipotizzato brevi scene o dato corpo ed emozioni e pensieri, l’ho fatto in modo mai arbitrario ma basandomi sempre su testimonianze storiografiche o su indizi concreti”. Ovvero, non era facile, afferma, inquadrare il dramma del Paese “la cui verità è talmente contorta da superare la fantasia più ardita”.
Ciò per dire che Saviano ha compiuto una ricostruzione prendendo spunto dai tantissimi libri che riguardano la mafia, le connivenze, i rapporti con lo Sato, il ruolo dei tantissimi servitori, che siano stati giornalisti, giudici, uomini delle forze dell’ordine, anche politici. Tutti coloro che hanno cercato nei decenni di affrontare una grande piaga sociale ed economica, che ha devastato il territorio, la sua gente, le sue istituzioni.
Giovanni Falcone è stato tra i primi a comprendere la struttura unitaria e verticistica di Cosa Nostra, creando un metodo investigativo diventato modello nel mondo, occupandosi dell’indagine sui patrimoni e sui depositi bancari, comprendendo che le mafie si apprestavano a varcare i confini italiani e teorizzando l’importanza della cooperazione giudiziaria internazionale.
È il giudice che ha istruito il primo maxiprocesso alla mafia, che portò alla sbarra 475 tra boss e gregari di Cosa nostra e si concluse con 19 ergastoli e condanne a 2665 anni di carcere.
Due bombe sono le protagoniste all’inizio e alla fine della storia: quella che distrusse i familiari di Riina, intenti a disinnescare una bomba degli Alleati per ricavarne esplosivo, in cui il mafioso scampò per un pelo, e quella tristemente famosa di Capaci, il 23 maggio del 1992, con protagonista lo stesso capomafia che ne ordinò l’esecuzione, che squarciò il cielo e produsse un dramma nella vita del nostro Paese, un terremoto. Nel mezzo le pagine di vita, di storia di un uomo che stava realizzando il bene comune e che fu fermato nell’unico modo possibile: la morte.
I capitoli si susseguono con le vicende anche intime di uomini che si relazionano e scherzano tra loro, poi sono spinti dal senso del dovere, restano soli e combattono battaglie importanti: Rocco Chinnici, ad esempio, vuole che tutti siano a conoscenza delle indagini perché sa che ci saranno morti e che quel lavoro non può essere abbandonato. Occorre trasmettere l’uno all’altro le carte, le informazioni, per cercare di ostacolare l’ascesa dei criminali e la conquista del territorio. Poi c’è Antonino Caponnetto, che dà la forza e la tranquillità nel continuare a lavorare per istruire il maxi processo. I tanti amici del pool, che sono narrati non solo attraverso la ricostruzione del loro lavoro, ma soprattutto per la personalità, l’amicizia e la loro umanità. Ci sono infine, le tante donne che lo ammirano, a partire da Francesca Morvillo, che sarà segnata per tutta la vita per aver condiviso un’esistenza vicina a lui.
Il libro è avvincente, fa entrare nel mondo palermitano, nei gesti lenti, negli sguardi e nei sottintesi. In una cultura dove è meglio tacere, aspettare, piuttosto che parlare e denunciare, dove si palpa il senso asfissiante dell’omertà, si posano le parole fragorose che squarciano il silenzio. Le atmosfere e le ricostruzioni sono veramente belle, i fatti sono co-creati con i documenti, ma con la prosa di Saviano che è più matura dei lavori precedenti. Per lui, quella di Falcone è la storia di un uomo innamorato della sua terra, delle sue luci, dei suoi sapori, delle sue bellezze. E il suo lavoro ha inteso difendere questa bellezza, salvarla dall’ombra che la lambisce, dal marciume che ne corrode le fondamenta.
Lo scrittore ha omaggiato il giudice senza però riproporlo secondo un’immagine stereotipata. Ha sostenuto: “Il rischio più grande è che le icone siano rese immobili, statiche. Falcone e Borsellino non avevano la vocazione del martirio, erano uomini pieni di vita, attraversati da desideri, errori, progetti”. La conclusione è: “Il coraggio che loro hanno scelto – perché il coraggio è una scelta – può essere scelto anche da noi”.
Saviano si sofferma proprio sul coraggio di Giovanni Falcone e dei pochi che sono pronti a combattere una battaglia dura. Non è facile: c’è un contesto difficile, ci sono atti e gesti contrari, ci sono minacce e tentativi di fermare ogni azione. C’è Falcone che vive un dramma storico-sociale e psicologico: l’autore ne onora la memoria attraverso la ricostruzione dei suoi atti e dei suoi gesti, entrando nel suo spazio intimo e nel suo isolamento, avendo presente la frase che accompagna le pagine: “Prima ti infangano, poi ti isolano, poi ti ammazzano”.
L’ultima immagine passa attraverso il dolore dell’amico Paolo Borsellino che, piangendo, esclama: “Giovanni! Giovanni!” … e meno di due mesi dopo farà la stessa fine. L’ultimo passaggio è: “Nemmeno lui ha mai smesso di crederci. Soltanto che adesso si sente solo. Ed è inevitabile che sia così, perché solo è il coraggio”.
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