“Per quanto voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”
L’espressione è tratta da: “Storia di un impiegato”, un album attuale in cui il protagonista di Fabrizio De André ha qualcosa in comune con l’impiegato di oggi, tra fughe e ritorni verso la sicurezza, pervaso da una spinta al cambiamento tra innumerevoli contraddizioni. Il figlio di Fabrizio, Cristiano, a partire da novembre 2018 porta in scena quest’opera che mette in discussione le basi su cui si fonda il potere.
Meno di ottant’anni fa nasceva (Genova, 18 febbraio 1940) e poco più di vent’anni fa moriva (Milano, 11 gennaio 1999) un anarchico pacifista, un visionario, un uomo che della ribellione e dell’essere contro il sistema aveva fatto una vera e propria filosofia di vita, uno dei più grandi cantautori italiani: Fabrizio De André, denominato dal suo amico Paolo Villaggio: Faber.
De André ha inciso quattordici album in studio, più alcune canzoni pubblicate solo come singoli e poi riedite in antologie. Molti testi delle sue canzoni raccontano storie di emarginati, ribelli e prostitute, e sono considerate poesie, apprezzate dai critici ed inserite in antologie scolastiche. Ha valorizzato la lingua ligure, il gallurese e si è dedicato al napoletano. Ha collaborato con molti artisti della musica italiana, come Nicola Piovani, la Premiata Forneria Marconi, Ivano Fossati, Mauro Pagani, Massimo Bubola, Álvaro Mutis, Fernanda Pivano e Francesco De Gregori.
Per scrivere di Faber, mi occuperò di un album del 1973, che non sembrò riscuotere in prima battuta i favori della critica e dello stesso artista, ma che al contrario fu successivamente rivalutato e contiene, ad una lettura più attuale, molte risonanze con qualsivoglia contesto sociale di riferimento. Si tratta di “Storia di un impiegato”, un disco politico, di dissenso, di contestazione, di normalità da capovolgere, di paure e pericoli di perdere ciò che si ha. Inoltre, è un lavoro con alti contenuti filosofici, quelli legati alla vita quotidiana e alle scelte tra libertà e partecipazione agli eventi della società.
E non è forse ciò che si è manifestato nelle varie epoche storiche, legato ai tentativi di fratture e ricomposizioni dell’ordine esistente? E non è forse l’attualità di una condizione in cui l’impiegato ha la volontà ma non la ragione di compiere salti verso la negazione di una conformità che si ha terrore di modificare?
Si diceva delle critiche che accompagnarono l’uscita di quel disco. In particolare, voglio citare le parole di un autore (Luigi Manconi) che, sotto lo pseudonimo di Simone Dessì, recensì l’album sulla rivista musicale “Muzak” (l’articolo fu poi ristampato nel volume “C’era una volta una gatta”, Edizioni Savelli, “Il pane e le rose, Roma, 1977, 44)
“Storia di un impiegato è un disco tremendo: il tentativo, clamorosamente fallito, di dare un contenuto politico a un impianto musicale, culturale e linguistico assolutamente tradizionale, privo di qualunque sforzo di rinnovamento e di qualunque ripensamento autocritico: la canzone Il bombarolo è un esempio magistrale di insipienza culturale e politica”.
Ma il suo non fu un attacco isolato: il lavoro fu anche considerato reazionario, un prodotto scucito che non ha niente a che fare con le vecchie canzoni di Faber.
Inoltre, in quegli anni De André era attaccato politicamente dagli autonomi che lo definivano “figlio di borghesi”; era anche sospettato di essere anarchico dalle forze dell’ordine, perché sosteneva economicamente la rivista “Anarchica”.
Coloro che stimano il cantautore, ne ammirano soprattutto il coraggio morale e la coerenza artistica con cui si occupò di emarginati e di umili.
Nel sito ufficiale di Fabrizio De André (Biografia), si trova infatti questa frase:
“Cosa avrebbe potuto fare alla fine degli anni Cinquanta un giovane nottambulo, incazzato, mediamente colto, sensibile alle vistose infamie di classe, innamorato dei topi e dei piccioni, forte bevitore, vagheggiatore di ogni miglioramento sociale, amico delle bagasce, cantore feroce di qualunque cordata politica, sposo inaffidabile, musicomane e assatanato di qualsiasi pezzo di carta stampata? Se fosse sopravvissuto e gliene si fosse data l’occasione, costui, molto probabilmente, sarebbe diventato un cantautore. Così infatti è stato ma ci voleva un esempio.
(Fabrizio De André)
Quando esce “Storia di un impiegato”, il cantautore, che redasse i testi e la musica con Bentivoglio e Piovani (solo “Sogno numero due” fu scritto con Dané, che collaborò al posto di Bentivoglio), non sembrava contento. Credeva che le sue dichiarazioni politiche fossero state esposte in un linguaggio troppo oscuro e poco comprensibile. Basti pensare che, ad eccezione di “Verranno a chiederti del nostro amore”, che sarà cantata anche negli anni a venire, gli altri brani saranno eseguiti in pubblico solo per un paio d’anni. Negli anni novanta, finalmente la critica riconoscerà il valore musicale dell’album.
Le canzoni sono collegate da un filo narrativo, fondendo “lo spirito della ballata tradizionale con momenti di musica rappresentativa” e passando dalla canzone alla forma recitata, dai motivi legati all’amore, alla rabbia e aggressività, approdando ad un linguaggio moderno.
La storia è quella di un giovane impiegato che, dopo aver ascoltato un canto del “maggio francese”, entra in crisi e decide di ribellarsi: si unisce idealmente ai giovani, seppur con ritardo, scegliendo però un approccio individualista e violento. Ricordando gli avvenimenti accaduti, accusa coloro che non partecipano e li invita ad acquisire una nuova consapevolezza in occasione di future proteste. Avendo constatato che ha perso un’occasione, decide di gettare una bomba in un ballo in cui sono presenti i miti e i valori della cultura borghese. E comincia allora a sognare: la bomba è rivolta a coloro che gli hanno impedito di liberarsi dalle istituzioni, a partire dalla famiglia. Entra in gioco un giudice che lo informa che ha fatto il gioco del potere: lo ringrazia per aver eliminato i residui di un sistema ormai logoro. Ora è accolto nella società che conta, decide e dispone della libertà degli altri. Diventa suo padre, rivive la sua vita fatta di illusioni e delusioni, in difesa del proprio denaro e alla ricerca del potere personale. L’impiegato si sveglia e comprende di essere finito, senza possibilità di recupero dei valori collettivi, ma legato al proprio individualismo. La bomba è l’unico elemento di lucidità. Va ora in Parlamento a lanciare una bomba vera, ma sbaglia bersaglio e colpisce in una edicola la faccia della sua fidanzata che sta sulle prime pagine dei giornali. Scrive a lei una lettera di addio dal carcere in cui è rinchiuso. Solo lì scopre un nuovo mondo, scopre la parola “collettivo” e la parola “potere” e dunque il rifiuto di qualsivoglia forma di esercizio dello stesso.
Si tratta della contrapposizione di due realtà: l’impiegato e la sua condizione di borghese, l’individualismo e la ricerca del prestigio personale, rispettando le regole del gioco; la realtà del carcere, simbolo di oppressione e al tempo stesso di uguaglianza. Ed è proprio nella realtà collettiva che si “impara un altro modo di agire, di pensare e gestire la propria persona tenendo conto della presenza degli altri”, cambiando prospettiva e passando da una vita centrata sull’io ad una visione in cui è predominante il noi.
Le canzoni raccontano proprio questa evoluzione: dall’esperienza borghese ed individualista alla presa di coscienza del bisogno di una lotta comune.
Nell’“Introduzione”, “Lottavano così come si gioca / i cuccioli del maggio era normale”, e avevano il tempo anche per la galera per veder spuntare una nuova primavera, si entra subito nei fermenti della rivoluzione studentesca.
Nella “Canzone del maggio”, c’è un grande interesse per la ribellione: ora però non è più come prima, anche se tutti credono che non è successo niente perché hanno votato “la sicurezza e la disciplina / convinti di allontanare la paura di cambiare”.
Riconoscendo di avere trent’anni, poco più degli studenti, l’impiegato è, nel brano: “La bomba in testa”, combattuto. Si sente a disagio ma in qualche maniera è attratto da coloro che “cantavano il disordine dei sogni”. Ad ogni modo, conclude: “e non mi sento normale / e mi sorprendo ancora / a misurarmi su di loro / e adesso è tardi, adesso torno al lavoro”.
Nella canzone: “Al ballo mascherato”, attraverso una esperienza onirica, l’impiegato con un esplosivo fa saltare i simboli della società borghese e del potere. Riconosce che, anche se non ha natura gentile, “io con la mia bomba porto la novità / la bomba che debutta in società / al ballo mascherato della celebrità”.
E’ ora sotto processo. Nel “Sogno numero due”, il giudice gli fa notare come la bomba sia servita a rinnovare ed alimentare il sistema, e lui si è ritagliato un posto tra i potenti. L’imputato ha anche lui giudicato, per questo il potere gli è grato: “Ascolta / una volta un giudice come me / giudicò chi gli aveva dettato la legge / prima cambiarono il giudice / e subito dopo / la legge”. E l’intensa chiusura: “Tu sei il potere. / Vuoi essere giudicato? / Vuoi essere assolto o condannato?”
Le parole: “Mi sveglio ancora e mi sveglio sudato / Ora aspettami fuori dal sogno / Ci vedremo davvero / Io ricomincio da capo”, lo fanno destare dal sonno (“Canzone del padre”).
Ne: “Il bombarolo”, l’impiegato prepara un vero attentato il cui unico effetto è metterlo in ridicolo. “Chi va dicendo in giro / Che odio il mio lavoro / Non sa ancora con quanto amore / mi dedico al tritolo”: non sarò mai “un cavaliere del lavoro”, perché “Io son d’un’altra razza / Son bombarolo”. Poi si rivolge agli “intellettuali di oggi” e agli “idioti di domani”, perché non ha bisogno di lezioni. E’ davanti al Parlamento e sta per far esplodere la bomba per provare il suo talento: “C’è chi lo vide piangere / Un torrente di vocali / Vedendo esplodere / Un chiosco di giornali / Ma ciò che lo ferì / Profondamente nell’orgoglio / Fu l’immagine di lei / Che si sporgeva da ogni foglio / Lontana dal ridicolo / In cui lo lasciò solo / Ma in prima pagina / Col bombarolo”.
Nel brano: “Verranno a chiederti del nostro amore”, dal carcere vede la sua donna e teme per il suo futuro, le chiede di prenderlo per mano e fare le proprie scelte con autonomia. Si tratta di una canzone con contenuti emozionali forti: a partire da: “Non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole / le tue labbra così frenate nelle fantasie dell’amore / dopo l’amore così sicure nel rifugiarsi nei sempre / nell’ipocrisia del mai. / Non sono riuscito a cambiarti / non mi hai cambiato, lo sai”; per giungere a: “Digli pure che il potere io l’ho scagliato dalle mani / dove l’amore non era adulto e ti lasciavo graffi sui seni / per ritornare dopo l’amore alle carezze dell’amore / era facile ormai. / Digli che i tuoi occhi me li han ridati sempre / come fiori regalati a maggio e restituiti in novembre / i tuoi occhi come vuoti a rendere per chi ti ha dato lavoro / i tuoi occhi assunti da tre anni / i tuoi occhi per loro”. Infine, la conclusione dell’amore: “Andrai a vivere con Alice che si fa il whisky distillando fiori / o con un casanova che ti promette di presentarti ai genitori / o resterai più semplicemente dove un attimo vale un altro / senza chiederti come mai, / continuerai a farti scegliere / o finalmente sceglierai”.
Infine, la canzone: “Nella mia ora di libertà”, quella che vede la maturazione dell’impiegato: la rinuncia all’ora d’aria, l’inutilità del carcere, il sequestro dei secondini, cioè una lotta non più individuale ma collettiva. “Di respirare la stessa aria / dei secondini non ci va / e abbiam deciso di imprigionarli / durante l’ora di libertà / venite adesso alla prigione / state a sentire sulla porta / la nostra ultima canzone / che vi ripete un’altra volta / per quanto voi vi crediate assolti / siete per sempre coinvolti”. La frase che sembra chiudere la narrazione è l’espressione: “Ma quanta strada bisogna fare per non diventare così coglioni / da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni”.
Dunque, una critica forte al potere, sia quello borghese che ora governa le istituzioni, ma anche al potere cosiddetto “occulto”, che sembra usarlo per fargli scardinare quelle istituzioni a lui contrarie. E’ il lavoro sporco che può fare solo un impiegato, costretto in un limbo, in cui non riesce a scegliere se accettare la sua vita, comunque sicura, con la promessa di crescere e realizzarsi, oppure ribellarsi e seguire l’esempio degli studenti.
Se la critica è verso l’istituzione, anche quella familiare, che limita libertà e scelte, nel susseguirsi dei brani si nota il rifiuto/incomunicabilità con i poteri: ed allora, per sovvertire l’ordine costituito, crede di poter effettuare una rivolta/ribellione, anche con l’utilizzo (onirico) delle bombe. Il sogno è presente per la rappresentazione di un cambiamento o reazione nella società data. Ed allora il passaggio al noi, al collettivo, attraverso una realtà che è fatta anche dall’altro, un altro che soffre come te e che può cambiare qualcosa a patto di farlo insieme.
La conclusione è legata all’attualità di un lavoro di più di quarantacinque anni fa, che era contestualizzato e faceva riferimento ad una società pervasa dalle proteste. Forse si tratta della necessità di interrogarsi se è meglio conservare o innovare, ma il quesito è: siamo proprio convinti che la conservazione dell’esistente e la sconfitta dell’impiegato dei sogni, non siano temi attuali nelle scelte di una società che si ripiega verso identità immodificabili e ricerca l’uomo forte?
Fabrizio De André non aveva dubbi: in qualsiasi epoca storica è necessario partecipare alla vita civile, in quanto alla fine “siamo per sempre coinvolti” nella costruzione di una società che dovrebbe tendere alla democrazia, non sempre pienamente esercitata.
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