Qualche tempo fa mi fu proposto (dal prof. Vincenzo Aversano) un titolo suggestivo per un’ipotesi di ricerca: “Lavoro/ozio come contesto di gemmazione musicale e legata al canto della tradizione popolare folkloristica”, verificando al contempo i lavori del musicologo americano Alan Lomax, di cui esistono riscontri spesso solo in inglese.
Elaborai una serie di riflessioni, che ampliate riporto in questo intervento.
Occorre una breve premessa per parlare di musica popolare, delle diverse tradizioni musicali che vanno al di là della musica colta europea e comprendono espressioni legate ai gruppi etnici o sociali: questo tipo di musica è tramandata per tradizione orale ed è legata alle specifiche comunità.
Le differenze tra musica colta e popolare si basa su alcune distinzioni: oralità e scrittura; contesti (luoghi e occasioni); elementi creativi ed esecutivi.
La musica colta, ovvero la storia della musica occidentale, è dotata di notazioni musicali che servono a mettere i suoni su carta. Per quanto riguarda la tradizione popolare non ci sono testi scritti ma brani che vengono poi trasformati dall’esecuzione dell’artista che li tramanda oralmente alle generazioni successive. Non esiste rappresentazione grafica della musica, che è al contrario frutto di memorizzazione orale non sempre semplice o di facile esecuzione.
Il secondo elemento è legato all’occasione e al luogo: una musica è parte integrante di un rito religioso, oppure di un canto di lavoro. È un’azione funzionale che non ha valore in sé ma ha rilevanza per i partecipanti che eseguono un avvenimento o un’attività collettiva.
Per quanto riguarda creazione ed esecuzione, la musica colta è creata dal compositore, poi fissata su carta ed infine eseguita dall’interprete e concessa al pubblico. La musica popolare non ha distinzione di ruoli tra il compositore e l’interprete; i brani sono eseguiti magari dimenticando il primo autore ed ogni musicista li reinterpreta a seconda della libertà di espressione. Così un canto si modifica nel tempo sommando le varianti dei vari cantori.
Detto tutto ciò, è interessante rilevare che l’ambito di ricerca di questo tipo di musica è quello dell’etnomusicologia: lo studioso si avvale dell’ascolto e presta attenzione al suo luogo d’origine. Ad esempio, un occidentale trova difficoltà ad orientarsi tra le intricate strutture ritmiche delle orchestre di percussione dell’Africa centrale.
Questi motivi rendono affascinante il mondo musicale popolare, soprattutto perché apportano una migliore comprensione dei popoli ed approfondiscono la conoscenza di una certa cultura. Per tutte queste ragioni, una ricerca sul campo sarebbe forse interessante per ampliare conoscenze che solo all’apparenza possono essere considerate esaustive.
Le ipotesi potrebbero partire proprio dal contesto, limitando il campo alla cultura popolare italiana della seconda metà del novecento, con l’importanza dei lavori di Annabella Rossi, Roberto De Simone, Luigi M. Lombardi Satriani, A.M. Cirese, A.M. Di Nola (i principali), e tanti altri studiosi di cui è ricca la tradizione popolare. E ciò, partendo dall’evidenza che il momento del non lavoro e del vivere le occasioni festive è quello in cui si esplicitano le occasioni canore e musicali.
Se si vuole indicare la tradizione etnomusicale italiana, riporto i lavori: Guizzi F., Guida alla musica popolare in Italia. Vol. 3: Gli strumenti della musica popolare in Italia, Libreria Musicale Italiana, 2002; Buonasera T., Musica e folklore di Sicilia. Cori di Val d’Anapo. 81 anni di storia, Morrone Editore, 2013; Disoteo M., Ritter B., Tasselli M.S., Musiche, culture, identità, FrancoAngeli, 2001; Plastino G., La musica folk. Storie, protagonisti e documenti del revival in Italia, Il Saggiatore, 2016; Grauer V., Musica dal Profondo. Viaggio all’origine della storia e della cultura, Codice Edizioni, 2015; Grossi G., Antropologie. Trecento e passa canzoni folk, Editore Zona, 2017; Colitti G., Cantare per comunicare, Lavegliacarlone, 2017.
Diego Carpitella e Maurizio Agamennone hanno compiuto studi particolarmente efficaci. Quest’ultimo ha anche rivolto il suo sguardo al Canto delle Confraternite cilentane: Varco le soglie e vedo. Canto e devozioni confraternali nel Cilento antico, con CD Audio, Squilibri, 2019. Carpitella ha rilevato soprattutto la sintonia tra i termini “popolare e contadino”, in cui i canti sono da intendere come poesia cantata e non recitata, e l’identità etnica deve tener conto dell’invenzione di nuovi linguaggi nel legame con le condizioni di vita (contesto). (Bartòk B., Scritti sulla musica popolare, a cura di Carpitella D., Bollati Boringhieri, 2020) Per lui, occorre considerare che il canto popolare è un prodotto unitario: le parole e i suoni sono elementi equivalenti e della medesima importanza; la natura del canto popolare va inteso come valore espressivo; il rapporto tra i canti popolari e i canti d’autore è molto stretto; le interpretazioni musicali e le variazioni canore vanno considerate nel loro insieme; infine, è da evidenziare l’importanza dei canti nella comunità, i rapporti tra i canti e la vita collettiva. Il compositore si appropria del linguaggio dei contadini e lo domina, così come il poeta fa con la lingua. (Ivi, p. 19)
Dunque, la musica popolare è da inserire in un quadro storico più ampio e generale, in cui è di rilievo la manifestazione collettiva con importanti differenze tra musica cittadina e contadina, in cui la seconda si avvale di melodie, di carattere e struttura uguali, diffuse nelle espressioni della sensibilità musicale della classe contadina. (Ivi, pp. 74-76)
Ho citato queste brevi riflessioni di Diego Carpitella, contenute nel libro di Béla Bartòk. Riporto altri riferimenti: Agamennone M., Di Mitri G.L., L’eredità di Diego Carpitella. Etnomusicologia, antropologia e ricerca storica nel Salento e nell’area mediterranea, Atti del Convegno (Galatina, 21-23 giugno 2002), Salento Books, 2003; Giurati G., a cura di, Incontri di etnomusicologia. Seminari e conferenze in ricordo di Diego Carpitella, Accademia Nazionale di Santa Cecilia, 2007; Agamennone M., Musica e tradizione orale in Salento. Le registrazioni di Alan Lomax e Diego Carpitella (1954), con 3 CD-Audio, Squilibri, 2017; Orlandi B., Tratti della ricerca antropologica di Diego Carpitella. Un dialogo a più voci, Nuova Cultura, 2010.
Alain Lomax,l’antropologo ed etnomusicologo nato nel 1915 ad Austin (Texas) e morto nel 2002 a Holiday (Florida), una delle personalità più influenti della cultura del XX secolo, tra il 1953 e il 1954 in Italia collaborò proprio con Diego Carpitella, registrando sul campo molti canti popolari soprattutto abruzzesi, ed in particolare: La Partenza del pastore e il lamento funebre dello Scura maje. Della sua permanenza in Italia, si hanno riscontri nel lavoro: L’anno più felice della mia vita. Un viaggio in Italia (1954-55), Il Saggiatore, 2008. In italiano, anche: Mister Jelly Roll. Vita, fortune e disavventure Jelly Roll Morton, creolo di New Orleans, «inventore del jazz», Quodlibet, 2019; La terra del blues. Delta del Mississippi. Viaggio all’origine della musica nera, con CD Audio, Il Saggiatore, 2005.
Lomax attraversò il Paese, dalla Sicilia, alla Calabria e fino al Friuli, e poi di nuovo giù per la penisola fermandosi in Campania. Il tutto tra vecchie lamentatrici, contadini lavoratori delle vigne, pescatori che cantano mentre si passano la rete di mano in mano, cantori delle miniere di zolfo e suonatori di tamburo calabresi, che fanno partire la tarantella mentre le donne felici danzano. Nel 1954, convinto che l’Italia sarebbe stato il laboratorio ideale per associare contesto e stile della voce, eccolo soffermarsi dinanzi alle immagini di donne dagli sguardi luminosi e bassi con in braccio bambini dalle guance scavate.
Scrisse: “La gente lavora a giornata, quando c’è lavoro: si alza quand’è ancora buio e deve camminare per tre o quattro ore su difficili sentieri di montagna per raggiungere i campi da coltivare”. Non solo canzoni e suoni, ma una vera e propria ricerca sociale, una testimonianza dal vivo.
Per integrare le idee di Lomax, riprendo uno scritto curato da Ronald D. Cohen: “Alan Lomax. Selected writings” 1934–1997, Routledge New York – London, 2003, in inglese, Capitolo 14 – Musica popolare italiana con Diego Carpitella, 1955.
Riporto alcuni passaggi significativi di Lomax che così si è espresso sul modello di canto popolare italiano che all’epoca resisteva al cambiamento più di “qualsiasi altro tratto culturale”.
Scrive l’autore:
«Il cambiamento arriva solo quando altri modelli alterano il carattere etnico di una regione … sconvolgendo la struttura della vecchia società. L’Italia ha il canto popolare più completo e ricco di storia». A questo punto fa l’esempio del triplo oboe portato in Sardegna dai Fenici. Poi si riferisce alla «tarantella, il ballo del sud, e il saltarello, il ballo dell’Italia centrale, sembrano risalire all’epoca classica». Sono queste espressioni legate allo stile più antico ancora molto in uso.
«Dal primo Medio Evo e da periodi molto antichi, tante canzoni sono state recuperate dai cantanti contemporanei. Forse le registrazioni più interessanti tratte dal lavoro sul campo (…) sono quelle del maggio, recuperate nelle montagne a nord di Firenze; queste opere popolari primitive risalgono a prima che l’opera moderna prendesse piede a Firenze, e, quasi certamente, lo spettacolo è rappresentato com’era agli inizi».
Il carattere arcaico della musica rurale italiana è evidenziato dagli strumenti più comuni. Qui parte l’elenco degli stessi: «In ordine: il tamburello, che era lo strumento più popolare dei greci; il flauto di legno o di canna, anch’esso di origine greca; la cornamusa; l’arpa mascellare e a tamburo e frizione (molto probabilmente influenzato dai Mori); la chitarra; il violino; e, di recente, al posto di tutti gli altri, la fisarmonica. Nel secolo scorso, la musica con banda di ottoni è diventata uno standard in quasi tutte le feste italiane».
Le influenze sono state evidenti: «Molti hanno invaso questa bellissima terra fin dai tempi dei romani e ovunque ci sono esempi di canti popolari in cui sono evidenti queste invasioni. Ci sono comunità musicali moresche vicino a Napoli, reliquie dell’invasione dei Mori nell’VIII secolo. In Puglia e in Sicilia si trovano canti folk in dialetto greco bizantino, importati intorno al XIII secolo».
Le tracce degli Spagnoli sono presenti in tutto il sud, ma tante sono state le influenze: «le canzoni dal confine nord-orientale fino alla punta estrema della Calabria, testimonianza di una lenta migrazione popolare da tutto l’Adriatico che è andata avanti per secoli. Infine, in tutte le Alpi italiane, dove le popolazioni sono miste, ci sono anche influenze musicali decisive dai paesi del nord».
Eppure, questi esempi sono successivi e si sono mescolati ad un modello italiano preesistente: «A nord fino alla pianura padana, l’Italia è terra di canti solistici e voci stridenti. Dall’Appennino alle Alpi, canti e balli sono normalmente eseguiti in gruppo; le voci si fondono in una facile armonia. Nella Sardegna centrale, tra un popolo che ha conservato dal Neolitico tracce culturali fino ai tempi moderni, si trova uno stile vocale polifonico che è probabilmente precristiana e potrebbe essere il tipo più antico di polifonia europea».
Ad ogni modo, sia la Spagna, «terra di monodia fino ai Pirenei e, oltre, terra di canti di gruppo e voci aperte», che l’Italia meridionale si ispirano «al Vicino Oriente, e la famiglia dei canti orientali delle parti settentrionali di entrambi i paesi attingono al più vecchio repertorio europeo. Laddove questi schemi si rompono, una causa storica recente si trova quasi sempre, come nel caso del polifonico albanese, che si è insediato nell’Italia meridionale; ma la spiegazione di queste tendenze va cercata nel carattere delle società che sono state dominate fin dall’antichità».
La peculiarità italiana, sostiene Lomax, è riscontrabile fin dal Rinascimento, quando «la musica contadina italiana (…) ha vissuto quasi senza contatto con i grandi flussi di musica d’autore italiana. Ha seguito il suo corso, sconosciuto e trascurato, come un grande fiume sotterraneo. In effetti, questo iato tra arte popolare e belle arti è uno dei tratti distintivi della storia culturale italiana. Per molti secoli fino al periodo risorgimentale c’era poca circolazione nazionale della cultura, e l’Italia è stata divisa in un gran numero di province e regioni, ognuna delle quali ha sviluppato il proprio dialetto e le sue proprie canzoni. Le cause erano varie: una geografia complessa, mancanza di unità politica, la conquista di varie parti d’Italia da parte di stranieri poteri e la precoce fioritura della cultura urbana».
Se le città italiane svilupparono una cultura alta, «le cui radici furono nella civiltà del passato classico (…) i contadini delle colline e dei villaggi furono lasciati alle loro vecchie abitudini: questa divisione tra città e campagna, che tuttora persiste, diede origine anche a una canzone urbana, realizzata da e per la classe artigiana popolare. Sono queste le canzoni artigianali che fino ad ora erano considerati canti popolari italiani».
Lomax chiudeva alla metà del novecento con l’auspicio che il nostro canto popolare così ricco «forse può svolgere un ruolo importante nella crescita di una nuova cultura italiana».
Complimenti vivissimi …la musica trascende lo stallo antropologico ed introduce valori di trasformazione ineludibili sebbene li concili sempre con un atavico conservatorismo.
In altri termini una immanenza densa di accadimenti futuribili.
La creazione come superamento della conservazione e sguardo al futuro … Ipotesi molto interessante e suggestiva. Sarebbe un filone di ricerca da indagare. Grazie.