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Il prof. Vincenzo Aversano propone un secondo intervento sul poeta e compositore E.A. MARIO, artista e “genio assoluto”, interprete di “atteggiamenti, problemi, sofferenze e palpiti del popolo”, che con grande interesse pubblico.

     Ringrazio innanzitutto Delia Catalano, nipote di E.A. Mario e mia amica, per avermi invitato a parlare della operosità del suo grande Nonno nel tragico periodo bellico dell’inizio del secolo andato. Tema su cui mi intratterrò, ma con la sinteticità imposta dal tempo concesso, troppo breve perché si possa dipanare un tema che è molto complesso e delicato, come mostrerò, scusandomi se il discorso sarà talora schematico, per ovvia necessità. 

    L’itinerario che traccerò, pur senza trascurare i dati della storia evenemenziale, è più intellettuale che biografico, per il semplice fatto che da geografo-storico qual sono, non posso indulgere all’aneddotica e al racconto (un vocabolo e un atteggiamento diventato troppo di moda, anche fuori del mondo giornalistico, a scapito della rigorosa descrizione e interpretazione): chi fa il mio mestiere, si sa,  punta sulla ricostruzione del paesaggio, del genere di vita e della struttura socio-culturale dello spazio geografico, non dunque sugli eventi in quanto tali ma sulla loro stratificazione nei contesti esaminati, operazione peraltro assai difficile, volta a comprendere il “senso cumulativo” delle cose e degli uomini.

     Inizio con due annotazioni sul personaggio: 

a) la prima è di carattere generale e conferma quello che mi è capitato altre volte, quando ho approfondito qualche aspetto  dell’attività del “Signor Tutto”; voglio dire che egli, nel periodo in parola, mi è apparso ancora più grande, nobile e geniale di quanto prima pensassi, ciò che conto di dimostrare.

b) la seconda serve a chiarire subito il titolo del mio intervento: tra il 1914 e il 1919 si può parlare non tanto di E.A. Mario quanto di «Mario» (così veniva apostrofato), con un nome che, privo della E e della A, aveva perso il significato anarcoide iniziale e quindi equivaleva aGiovannino uomo e artista. Questo significa che vita e opere sue non vengono condizionate dalla sete di guadagno tramite pubblicazione su commissione di case editrici paganti, ma sono improntate a interpretare gli atteggiamenti, i problemi, le sofferenze e i palpiti del popolo, mazzinianaente inteso e amato. Come ha dimostrato il collega universitario Domenico Scafoglio nel saggio intitolato «E.A. Mario, tra industria, cultura e miti personali», Mario ha sofferto molto la mercificazione della  canzone, essendo per  natura portato verso una sorta di missione «evangelica e sacerdotale» verso il “popolo”, piuttosto che verso il “pubblico” acquirente.

     Ebbene, in questo acuto conflitto interiore, contestualizzando il personaggio nel periodo qui preso in considerazione, aggiungo che l’Autore, ormai  senza la E e la A (che, ripeto, rimandano al significato anarcoide iniziale),  diventando cioè solo «Mario» (come se fosse Giovannino), ha già perso la  battaglia col Poeta del popolo, che lo sopravanza perché sente più che mai il problema del ruolo dell’artista nella società: lo stesso affrontato e sofferto da tanti artisti e studiosi seri e onesti (preferisco non usare il termine «intellettuali», una genìa che a mio parere non esiste), compreso lo stesso Pasolini. A proposito del quale, lancio agli specialisti  l’idea di tentare una ricerca comparata tra i due, perché essi,  a mio parere, anche se può sembrare paradossale, pur da opposte sponde ideologiche, sono di fatto molto più culturalmente e umanamente vicini di quanto (non) si creda. Li accomuna la simpatia per i popolani che hanno frequentato fino alla quarta elementare (cfr. i versi di Giovannino su Masaniello), e il desiderio di riscattarli, perché essi esprimono una verità identitaria, una innocenza e umanità di base, una consonanza con i valori evangelici (i poveri di spirito: qualità presente anche in persone colte, purché intellettualmente oneste), valori estranei ai borghesi. Inoltre, anche Pasolini ha scritto in dialetto friulano, certo molto meno di quanto Giovannino non abbia fatto in napoletano, con la precisazione che  il Nostro non accettava in poesia il “napoletano basso” della plebe, ma  – giova ripeterlo – solo perché auspicava l’emancipazione della stessa, secondo il “verbo” mazziniano. 

     Paradosso nel paradosso, Giovannino è più religiosamente laico dell’evangelico Pasolini, poiché non incita alla lotta contro il capitalismo, ma da mazziniano aspira a una società interclassista, realizzabile attraverso la pace e la solidarietà tra i vari ceti, ispirato anche da un certo senso pratico e paesano (che gli proviene dalle radici pellezzanesi), che gli fa comprendere come sia orribile e inutile far morire la gente nella lotta di classe quando se ne potrebbe fare a meno; e questo vale anche nel caso di quella guerra, quando milioni di giovani vite sono state sacrificate per colpa del cinismo e dell’ottusità dei comandanti, a loro volta strumenti dei capitalismi nazionali contrapposti, e forse di una macchinazione internazionale, stando a risultati di  ricerche recenti, intesa a cancellare un’intera generazione giovanile e matura.

      A latere, si dovrebbe indagare sulla consonanza e diversità della «poesia civile» dei due scrittori, sgorgante “in buona fede”  in Giovannino (Canzone  di MazziniSonetti Rossi‘O Quarantotto, laddove si celebrano episodi gloriosi del Risorgimento), invece più a sostrato ideologico marxista in Pasolini (cui forse si può avvicinare maggiormente Viviani); e ancora, approfondire l’idea e la pratica della poesia nei due: Pasolini mostra di apprezzare solo le composizioni “crepuscolari” (senza rima) di Giovannino (PampuglieLuce d’’a sera), fidandosi, suppongo,  del parere di Alberto Consiglio. In questo, a mio modesto avviso, prende un grosso abbaglio per scarsa conoscenza della personalità complessiva di E.A. Mario, non valutandone la grandezza musicale né la nutrita produzione letteraria (spesso introvabile già allora), spaziante tra tanti generi e metri diversi, né il suo continuo sperimentalismo, né l’acutezza  dei suoi saggi  critici, né le doti manifestate in svariati campi (teatro, operetta, cinema, canto, editoria, giornalismo,  ecc.): tutte quelle sfaccettature, insomma, di un artista impegnato in società che lo fecero definire, dal Costagliola, “IL SIGNOR TUTTO” e per cui il sottoscritto, limitandosi solo alle sue variegate espressioni musicali, lo ha in altra sede definito «il Verdi della canzone napoletana».

     Prima di procedere oltre, vorrei tentare una rapida sintesi, non limitata al solo periodo bellico, sul patriottismo umano e poetico di E.A. Mario. Ebbene, il suo amor di patria non significò adesione al Fascismo, tanto più che al «Piave» veniva, nel  Ventennio,  assai spesso anteposta «Giovinezza». Inoltre, coesistevano in lui quattro  scale di patria (la terra d’origine, cioè Napoli e Pellezzano, l’Italia, l’Europa e il mondo: aveva  intuito e applicato la nozione di “glo-cal”, oggi diventata quasi di moda. Ancora: non dimenticava l’idea federalista iniziale del Risorgimento, poi tradita dai Sabaudi col pretesto di dover combattere il brigantaggio e la corruzione nelle amministrazioni periferiche; infatti, in Fraternità vernacola (settore della raccolta «Vangelo») sono tradotti in napoletano 21 componimenti di lingue regionali, subregionali o cittadine (e le parlava: un mostro! Basta ricordare la sua interpretazione di «Madonnina blu»): era dell’idea che i dialetti, lungi dal dividere il popolo italiano, ne rinsaldassero i vincoli nazionali (d’altronde, in trincea, si verificò una trasfusione “etnica” di fatto…). «Patria» equivaleva per lui a «Popolo» e non soloall’ufficialità dell’apparato istituzionale, che in certo senso lo deprimeva: amava la «Nazione» e non lo «Stato»e per tal motivo principale rifiutò la croce di guerra; non si dimentichi che per questo “affronto” all’Autorità fu pedinato per decenni, anche  perché, tra l’altro, si era preoccupato di ospitare un anarchico. Alla fine le autorità capirono che egli vantava una nobiltà d’animo al di sopra delle parti: non a caso nel dopoguerra aiutò un ex-fascista maltrattato… 

     Il significato del suo nome d’arte (E.A. Mario), come è noto,  ci dice del suo mazzinianesimo anarcoide iniziale, anche se dal 1924 egli scivolò su posizioni filomonarchiche, ma con dignità (rifiutando la croce di guerra, ripeto, con una battuta ironica che preferisco omettere..). Volle chiamare «Italia» la terza adorata figlia, facendo di tutto perché nascesse in patria con un ritorno veloce dall’America (1924) e, in punto di morte, come ci ricorda l’altra figlia Bruna nella eccellente biografia di suo padre, poggiò la testa sulle sue spalle, dimostrando non solo la tenerezza di padre, ma anche forse apponendo così il «timbro di uomo-poeta innocente, sincero e ardente patriota italiano». 

     Aver scritto tante canzoni e poesie sull’esodo transoceanico non fu forse “patriottismo migratorio”? Affrontò tutte le tematiche del soldato in guerra e della sua martoriata affettività, anche nei problemi del dopoguerra, giacché la tragedia non finisce con lo zittire delle armi…. Ebbe sensibilità non comune verso gli sconfitti della II Guerra mondiale (cfr. la canzone Suldato ca tuorne), compresa la popolana che nel 1944 dette alla luce un figlio di colore (Tammurriata nera), una canzone profondamente dolente e patriottico-popolare, troppo travisata in sfottò dalla interpretazione della Nuova Compagnia di Canto Popolare.

     Ma, per restare al conflitto tra E.A. Mario e Giovannino, esso era esasperato dal fatto che il Nostro, oltre a voler “contare” nella società (al pari di D’Annunzio o dello stesso Carducci), doveva procurarsi pur da vivere producendo cultura di continuo, avendo da sfamare una famiglia numerosa, oltre che portare avanti tante iniziative solidali (a favore degli emigranti, ad esempio, o per fondare l’«Agape dei poeti», quelli veri, s’intende…). Ciò spiega la sua “presenzialità” costante, tesa a interpretare le istanze dal basso, ma  giudicata invece da maligni come  eccessivo “presenzialismo”, specie negli anni della guerra. In realtà egli difendeva il suo ruolo di artista in società e, anzi, fu così onesto che, nel periodo bellico buio del 1917, criticando aspramente la venalità dei canzonieri  delle due case editrici contrapposte (la Bideri e la Poliphon), propose una tregua di silenzio assoluto per rispetto alla tragedia  in atto, prospettò perfino una sospensione della «Piedigrotta» e si dichiarò disposto a tacere, purché qualcuno gli avesse assicurato un minimo vitalizio. 

     Eppure le sue canzoni venivano richieste al fronte dai diretti interessati, i soldati, che cantandole o ascoltandole sentivano alleviate le loro sofferenze e trovavano consolazione per la nostalgia di casa, i meridionali  in particolare e i napoletani in ispecie.  Prova ne siano le lettere che dal fronte pervenivano a Giovanni Ermete Gaeta: si vedano quelle del Maestro Mario Carocci, Capo Musica del 21° di fanteria, che nel 1917  loda i ragazzi del ’99 quali piccoli eroi che gli chiedono canzoni napoletane e gliene propongono di nuove di E.A. Mario (da loro profondamente amato); gli stessi che inventano versi sul motivo di S. Lucia luntana  quando assaltano il Colle S. Lucia, mentre lui in persona reclama canzoni di Piedigrotta; tra parentesi, anche su Funtana all’ombra fu scritta una parodia antiaustriaca… Si aggiunga la famosa lettera, sempre del  1917, del S. Tenente Raul di Luzenberger, 93° Fanteria, che confida a Mario che al fronte si canta anche nei momenti di lotta (citando episodi di tregua quando un meridionale canta la Serenata di Toselli e l’Ave Maria di Gounod, richiesta dalla trincea austriaca, nonché l’”ammoina” di cori fatta strumentalmente per rafforzare di soppiatto i reticolati), ma soprattutto testimoniando di comandare un plotone che aveva scelto come canto di battaglia Serenata all’Imperatore, sicché lui, anziché usare il fischietto e gridare “Avanti!”, ordinava “Ragazzi, Musica!”, con una canzone di Giovannino! Incredibile! Si combatteva cantando canzoni di Mario, cioè di Giovannino.

     Su questo versante non si può non ripartire dal «Piave», e già…, perché testo  e musica, portati direttamente in prima linea, negli “Ambulanti”  agganciati alle tradotte militari, da Giovannino impiegato postale col mandolino, venne cantato dai fanti assai prima della sua ufficializzazione come canzone e della riscossa post-Caporetto, tanto da meritare l’elogio del Gen. Diaz al suo autore, col noto telegramma: «Mario, la sua canzone al fronte vale più di un generale!». Considerato questo atto di nascita  pregresso e prolungato nel  tempo, in largo anticipo sulla registrazione all’anagrafe dei prodotti dell’ingegno, è evidente che la paternità fu di Giovannino e non di  E.A.Mario, e questo spiega anche le difficoltà incontrate e le amarezze da lui in seguito sofferte,  per il riconoscimento del diritto d’autore (conviene ancora ricordare, peraltro, che durante il Fascismo il «Piave» fu molto ostacolato da «Giovinezza»). 

     Ma in questa vicenda forse interessa ancora di più la capacità di vaticinio di Giovannino il quale, come racconta Bruna nella sua puntigliosa biografia del padre, tornato a casa e informato da mamma Maria della rotta di Caporetto, si chiuse nella sua stanza sconvolto (come tutti gli italiani) e, osservando una carta geografica della zona nord-orientale d’Italia, indicò nella linea del Piave la base di partenza della riscossa. Vaticinio orale fatto con l’anticipo di un anno, che puntualmente si avverò, prima che fosse formalizzato anche per iscritto nella stesura del «Piave», registrata su moduli di telegramma nella notte tra il 23 e 24 giugno 1918, pur sempre quattro mesi abbondanti prima del 4 novembre, firma della resa austriaca.

     Sulla qualità letteraria e musicale di questa “Leggenda” non mi soffermo troppo, tanto essa  è nota per essere, al tempo stesso, intrisa di dolcezza e forza, solennità e spirito risanatore, gioia di vita e commiserazione di morte, popolarità e ufficialità, epicità e intimismo: suscitatrice dunque di sentimenti che commossamente si provano all’ascolto di ogni singola esecuzione musicale; insomma, per citare la pertinente definizione di Lucio D’Ambra, «fanfara e marcia funebre, peana ed epicedio, che diventa inno». 

     Partendo da questo punto fermo, mette conto inoltre ribadire la identica precognizione quasi profetica presente, già nel 1915, nella già citata Serenata all’Imperatore (quello austriaco, ovviamente), una «posteggia alla grande» scrive Anna Maria Siena nel suo prezioso diario inedito di E.A.Mario. Aggiungo: una dimostrazione di orgoglio del napoletano-patriota. Ebbene, qui si preannuncia che «L’Italia trase a Trieste/ce trase e hadda restà!»: e cosi fu e sarà anche dopo la sfortunata II Guerra mondiale, «quando salvammo l’italianità della città», ricorda ancora intensamente A. Maria Siena (grazie per avermi indotto a ricordare che allora io, poco più che bambino, facevo sciopero a scuola per Trieste italiana). Un «poeta-vate», dunque, che non sfigura al cospetto di D’Annunzio (a proposito del quale passo la palla agli specialisti, affinché chiariscano i reciproci rapporti, se mai ce ne furono di tanti).

     Come anticipato, non ho fatto né farò una rigida sequela delle attività di Giovannino nel quadriennio bellico, ma accennerò a varie dimostrazioni di patriottismo, offerte per l’occasione: nel 1915:  ad esempio,  mentre tutti i canzonieri si mettevano al servizio della Casa editrice tedesca «Poliphon», il Nostro non tradì la italiana Bideri e rinnovò il contratto fino al 1919. Dello stesso anno  è Marcia ‘e notte, una canzone trasognata e trasognante, sospesa tra la natura e il miraggio stellare dei fanti che marciavano, ancora ignari della tragedia che li attendeva: una «canzone dei soldati scritta per i soldati», precisa A. Maria Siena, trovando consonanze intertestuali in versi di T. Tasso, cui aggiungerei anche Leopardi…, per non dire di altri. In questo testo è detto chiaramente che la vera fidanzata dei militari deve essere la Patria, dopo che in una precedente Romanzetta militare Mario-Giovannino scherzava un po’ sul caso di un “pazzo d’amore” che decide di andare in guerra e morire per “fare una schiattiglia” alla fidanzata.

     Non si contano, in quel periodo bellico, gli eventi in cui il Nostro recitava e cantava i suoi versi e le sue canzoni, anche quelle non di tema bellico (al Circolo Calabrese, ad esempio), a parte le manifestazioni in cui venivano interpretate da altri le sue canzoni di guerra (cosa che farà in una  serata d’onore Pasquariello, il 5 giugno 1915). La stessa fondazione di una sua autonoma Casa editrice, nel 1916, con la quale dimostrerà di essere «generoso poeta dei musicisti e musicista dei poeti», come ben commenta A. Maria Siena, conferma l’opzione per Giovannino e non per E.A. Mario,  prezzolato e bistrattato: gustoso, in proposito,  il suo editoriale, comparso  nella Piedigrotta 1916. 

     Perfino delle apparenti pause o distrazioni di quel periodo, come il libretto d’operetta Sua Maestà, scritto per la musica di Ettore Bellini, si può dire che servissero alla “causa”, inserendo nella dura quotidianità, con gran successo di pubblico, l’ultimo colpo d’ala della Belle époque. Il che contribuiva a scaricare la tensione dalla tragedia in atto: vi si racconta simpaticamente di un concorso di bellezza che  vide vincitrice una sartina, Lisa, figlia di Paolone  – vecchio pescatore, capo-paranza -, per verdetto espresso da un Comitato del “Circolo Nobili scapoli”. Lo stesso vale per alcune canzoni d’amore, come Presentimento, eccezionale composizione, o per raccolte di poesia intimista, come Cunfessione. Questo fu il Giovannino del periodo bellico, in sofferta dialettica con E.A. Mario, non con Mario. Ma che sia E.A. Mario, Mario o Giovannino, ora non importa più: fu una persona nobile, un eclettico genio assoluto!

Vincenzo Aversano

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