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A partire dai 33 frammenti di Alessandro Baricco: “Quel che stavamo cercando”, alcune riflessioni sul senso del mito in una società che ha paura e crea un racconto al di là del razionale.

Il mito è una narrazione che, rimandando a significati religiosi e spirituali, costruisce le origini e le modalità in cui il mondo si è consolidato in specifici contesti. Questa costruzione narrativa si riferisce soprattutto alle azioni di eroi, divinità ed entità soprannaturali, per spiegare gli accadimenti che altrimenti sarebbero irrisolti e non potrebbero essere colti, nell’immaginario popolare, secondo modelli concreti e razionali.

Molti sono i testi letterari che affrontano il mito, inteso come la punizione che gli dei impongono agli uomini che hanno trasgredito, che hanno compiuto un atto ingiusto nei loro confronti. Ed allora, è necessaria la costruzione di riti ed azioni che servono ad esorcizzare il male, il cattivo rapporto che si è instaurato tra uomo e divinità.

Bronislaw Malinowski rilevava che il mito è una forza che si costruisce nel tempo, per soddisfare bisogni ed esigenze e regolare la condotta umana. Se l’uomo non comprende ciò che accade in natura, quando non capisce i motivi della sua esistenza, rischia di smarrirsi e, così come affermava de Martino, avverte la crisi della presenza, cioè cade in preda ad ansia e paura, perché, nei momenti critici dell’esistenza, solo attraverso “modelli culturali”, legati ai simboli e ai rituali religiosi, si supera il “passaggio critico” e si mantiene la stabilità della vita quotidiana.

Se il mito è quasi sempre riferibile a fatti ed eventi di società intese come “primitive”, oggi il Covid-19, il virus che ha investito il nostro mondo e tarda ad essere debellato, riporta nuovamente a significati che potrebbero essere indirizzati a situazioni impalpabili, indefinibili.

Alessandro Baricco, in un libro/saggio che è proposto in 33 frammenti, rimanda ad una creatura mitica, per tutto il complesso di questioni che ruotano intorno al virus. Si avverte il desiderio di descrivere quella realtà inimmaginabile, forse anche per contenerla, sancirne i limiti, i confini, in quanto la sete di certezze spinge da sempre l’uomo a creare delle costruzioni collettive, regolate dai saperi. Non potendo fare ciò, ci si affida ai miti che per lo scrittore sono “prodotti artificiali con cui gli uomini pronunciano a se stessi qualcosa di urgente e vitale”. Il paragone più pregnante riguarda l’amore, un mito molto simile, in quanto prende avvio da un contagio improvviso, inaspettato, un “deragliamento del corpo”, a tratti un’oscillazione dolorosa. Gli amanti intorno a questo concetto allestiscono una costruzione, un edificio, e diventano loro stessi un mito.

In  questo anno di pandemia, intorno al Covid-19 sono circolati molti miti, per lo più amplificati e resi tali dalle forme incontrollabili della comunicazione: la costruzione in laboratorio per diverse finalità, soprattutto per ottenere potere e profitti; la sottovalutazione della malattia perché non più pericolosa dell’influenza; l’inutilità delle mascherine, perché limitano le libertà personali; le cure a base di farmaci poco efficaci e improbabili (idrossiclorochina); il raggiungimento dell’immunità di gregge lasciando che il virus si diffonda nella popolazione, pur sapendo che per raggiungere questo obiettivo si conteranno milioni di morti; il vaccino inteso come più rischioso del virus, forse un approccio che potrebbe portare al rifiuto della somministrazione. Tutto ciò è il mito della disinformazione, che difficilmente induce a cambiare opinione.

Il Covid-19 è riuscito a far passare in secondo piano tutta una serie di paure, come il terrorismo, la minaccia dei migranti, i mutamenti climatici. Ed è stato così risolto dalle popolazioni colpite, cioè dall’intera umanità, in una pandemia che ha assunto connotazioni mitiche.

Per interrogarsi sulla realtà spirituale insita nella nostra natura, Jung parlava di archetipi, di schemi o temi dominanti universali, che originano dall’inconscio collettivo e costituiscono i contenuti fondamentali delle religioni, dei miti, delle leggende e delle favole.  Il mito è il prodotto dell’operare dell’archetipo in sé, riconducibile allo stato di coscienza primitivo in cui dobbiamo cercare la fonte della sua formazione. Per l’uomo primitivo, i fenomeni naturali mitizzati non sono allegorie degli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto espressioni simboliche dell’intenso e inconscio dramma dell’anima quando diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione sui fenomeni naturali. Sostiene Jung, che la numinosità, un concetto che deriva da nume, dio, divinità, è sottratta alla volontà cosciente, perché traspone il soggetto in uno stato di emotività, cioè di abbandono privo di volontà. Sul numinoso, si sofferma molto Rudolf Otto per definire il senso profondo del sacro, del religioso e delle cose spirituali, che vanno al di là del razionale. Sarebbe l’“oggettivazione del divino come forza esistente fuori di noi”, un’esperienza extrasensoriale di una presenza invisibile, potente, che ispira terrore e al tempo stesso attira. Del resto, Lévi-Strauss, partendo dalla quadrilogia: Mythologiques, asseriva che il mito non si interpreta da solo, ma occorre studiare le varianti della storia e i modi in cui certi temi od oggetti si presentano nelle popolazioni confinanti. Diviene così possibile isolare le singole unità compositive, gli “atomi” narrativi, “mitemi”, unità mi­nime che non hanno significato in sé ma si combinano in relazione ad altri elementi in opposizione. Mircea Eliade intendeva il mito come uno dei “fatti sacri” accanto ai riti, alle forme divine, alle cosmologie, possedendo contemporaneamente un valore storico e un valore archetipale universale.

I miti più potenti si sono costruiti intorno alla “paura della morte”.

Nella letteratura, ci sono molti esempi in tal senso. Alcuni potrebbero essere tratti dall’Iliade: i funerali di Patroclo che pongono il primato dell’elemento luttuoso; la morte di Ettore che induce il padre a chiedere la restituzione del cadavere del figlio; la sposa che piange tutte le lacrime più amare. Tanato è, nella mitologia greca, ciò che personifica la morte. Esiodo, nella Teogonia, descrive l’insensibilità di Tanato alle implorazioni umane, perché qui si parla di notte e di oscurità che non è mirata dall’abbagliare del sole. La morte è una figura esistente fin dall’antichità nella mitologia e nella cultura popolare, con una forma umana oppure in maniera fittizia. La raffigurazione più diffusa è quella di uno scheletro che brandisce una falce, a volte vestito con un saio nero, una tunica o un mantello di colore nero munito di cappuccio. Il morente nell’accezione cristiana, deve scegliere tra il bene e il male, ma il demonio lo tenta sollecitandolo alla disperazione mostrandogli che la fine gli sottrae i beni materiali. Se accetterà di rifiutare i beni terreni si salverà, se invece vorrà portarli nell’aldilà sarà dannato. Per questi motivi il momento della morte è drammatico, in quanto espressione di questo nuovo rapporto con la ricchezza che può essere temporale ma anche spirituale. Donando i beni terreni, l’uomo ha la garanzia della vita eterna, ottenendo in cambio anche fama e gloria, come mostrano le tombe.

La peste, associata alla morte, è uno dei riferimenti costanti in questo anno di pandemia. In letteratura, il romanzo di Camus: La peste, sembra attualissimo quando si riferisce all’epidemia che colpisce e produce disgregazione sociale, indifferenza, egoismo, panico, spirito burocratico. Hannah Arendt aveva evocato nella banalità del male la spiegazione della peste dei primi del secolo, cioè la spagnola. Jaspers affermava che in quell’epidemia c’era qualcosa di metafisico, perché si diffondeva incolpevolmente, ma con una colpa che comunque andava individuata. Per Klemperer, che allarga il campo e si riferisce ad un’altra peste, la prima radice della diffusione del nazismo è dovuta innanzitutto alla corruzione del linguaggio: si comincia a parlar male, a lasciar cadere un accento di disprezzo su qualcuno nominato da quella parola, per esempio “ebreo”, e non c’è più da stupirsi se poi gli ebrei saranno deportati senza che nessuno reagisca. È la diffusione pestilenziale, un vero e proprio contagio.

La peste, così com’è stata pensata attraverso le varie immagini che la caratterizzano, è intesa come una responsabilità dell’uomo verso il proprio destino. In tal senso, sprigiona tutto il suo potenziale simbolico anche dopo che è stata riconosciuta come malattia. È vista, nell’Iliade, come determinata dall’ira di un dio che punisce i torti commessi dagli uomini, nel caso specifico Agamennone che ha peccato di prepotenza e offeso un sacerdote, diretta espressione della divinità. L’Edipo Re di Sofocle affronta la pestilenza, provocata dall’assassinio impunito di re Laio, ed individua le strade idonee per poter arrestare il morbo. Le due tragedie sono dunque punizioni divine. La cristianità parla di San Rocco e San Sebastiano: qui immagine e mito coincidono, in quanto la rappresentazione trasmette senza mediazioni il mito della peste come punizione. In Manzoni, è presente di nuovo la peste: I promessi sposi sono centrati su una domanda che riguarda il tema della responsabilità di fronte all’evento catastrofico, anche se nella morte si avverte la speranza di salvezza eterna del mondo dell’aldilà cristiano. Nel romanzo, è famosa la morte angosciosa di Don Rodrigo, tradito dai suoi stessi bravi e consegnato ai monatti, una sorta di punizione divina per una vita condotta all’insegna dell’oppressione.

Dunque, la morte legata al destino, al rapporto stretto tra uomo e ambiente. Anche oggi c’è chi si riferisce alla distruzione dell’ambiente come sviluppo o almeno concausa del virus. Se c’è la costruzione collettiva ecco che si realizza la vera pandemia, che riguarda l’immaginario prima che i corpi delle persone. La pandemia ha convogliato l’emotività collettiva nella figura mitica dell’eroe che su di sé prende tutto il peso del mondo per poter successivamente ricreare un nuovo ordine e una nuova riorganizzazione, anche sociale. La figura mitizzata è stata l’eroe-medico, l’eroe-infermiere, che ha incanalato tutte le aspettative e preoccupazioni di un’intera collettività, dimostrando così che anche nell’età contemporanea la struttura del mito non muore e che forme di ancoraggio sacrali e affettive sono tutt’oggi evidenti.

In conclusione, lo studio dei miti rimanda ad una costruzione ideale delle istituzioni sociali e culturali, in cui ogni individuo accetta un complesso sistema di rappresentazioni per pensare e agire come membro di una società, anche se a tratti emergono leggende e racconti che servono a far coesistere uomini, ambienti, credenze. Nonostante gli sviluppi della modernità, non solo il passato ma anche il futuro è legato al contenitore mitopoietico che serve a spiegare fatti che non sapremmo collocare altrove, perché il rivolgerci alle forme non razionali consente di avvertire ciò che accade intorno a noi, affidandoci al nostro immaginario e alla nostra coscienza più intima che ci spinge a  cercare l’esistenza di una creatura mitica.

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