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Negli ultimi anni, la violenza sulle donne è diventato un problema di stringente attualità, da quando è emersa con grande fatica una maggiore consapevolezza riguardante il rispetto di qualsivoglia persona, le forme di uguaglianza, il concetto di parità di genere.

E proprio sul genere occorre fare una riflessione, per comprendere meglio i mutamenti sociali ed i conseguenti atteggiamenti da seguire per l’attenuazione delle differenze in una società complessa.

Il genere rimanda al concetto anglosassone di gender, riferendosi ai “ruoli maschili e femminili, attraversati da differenze di ceto, cultura, etnia, religione, orientamento sessuale”, secondo la definizione tratta dal “Dizionario di Filosofia” Treccani.

La teoria del gender sostiene che esiste una differenza tra sesso e genere: il primo riguarda la caratteristica umana riscontrata alla nascita; il secondo un aspetto più propriamente culturale. Questa precisazione non sarebbe del tutto soddisfacente, anche perché si ripropongono questioni legate a ruoli e dinamiche di potere tra i sessi in qualsivoglia società. Ed allora è necessario superare la questione del sesso inteso in senso biologico e naturalista, quale matrice di un complesso di caratteri che identificano uomo e donna. Secondo questa accezione, infatti, si farebbe riferimento ad un destino scandito, per ciò che riguarda la donna, da un’identità di genere inferiore, subordinata e dipendente rispetto a quella maschile. Dopo l’affermazione dei movimenti femministi e i cambiamenti della condizione della donna negli ultimi decenni, che hanno investito il mondo del lavoro e le dinamiche relazionali, comprese quelle familiari, la distinzione ha riguardato la natura individuale e sociale di uomini e donne, ovvero la rappresentazione sociale del maschile e femminile.

Credo che la questione andrebbe affrontata proprio sulle differenze tra aspetti biologici e costruzione sociale dell’identità di genere. Chiara Saraceno sostiene che il genere è la “differenza sessuale socialmente prodotta”, che non si limita al solo aspetto legato alla sessualità, ma riguarda: ruoli, comportamenti, aspettative, emozioni, relazioni, rispetto al sistema sociale di ogni individuo, ovvero una costruzione sociale oltre a quella naturale di tipo biologico.

In sociologia, le relazioni di genere sono state intese secondo una prospettiva funzionalista (Durkheim, Parsons), ovvero la funzione sociale esercitata nella società, e una prospettiva conflittuale (Marx, Weber, Adorno), riguardante i rapporti conflittuali tra i soggetti interessati. Queste due visioni non sono riuscite a dare al genere una propria specificità, ma hanno riguardato essenzialmente questioni di dominio, potere, oppure di uguaglianza/disuguaglianza. Se Luhmann ha cercato di trovare una dimensione comunicativa che tuttavia non spiega una realtà quotidiana improntata sulle relazioni, agendo sul concetto di differenziazione/indifferenziazione si sono sviluppati: un approccio legato all’“omogeneizzazione”, che tuttavia non tiene conto delle differenze e dunque agisce in modo indifferenziato; un modello, del tutto antitetico al precedente, che punta a valorizzare le “differenze”.

Un paradigma interessante che si è affermato in seguito è quello “interazionista-comunicativo” (Berger, Luckmann, Goffman, Habermas), che ha dato peso alla cultura e ha riguardato il genere come una “costruzione sociale”, predominante rispetto alla base biologico-naturale. La differenza si risolve nella natura negoziale, si realizza cioè nell’interazione uomo/donna, in cui è essenziale la centralità del soggetto che costruisce il suo futuro di genere.

Pierpaolo Donati elabora l’interessante modello “relazionale”, che mette insieme i fattori strutturali, relazionali e culturali (risorse) che si confrontano con le condizioni sociali e gli obiettivi (sfide), all’interno della società. Qui la differenza biologica non è determinata, perché il genere non è definito in maniera rigida (ruoli, funzioni, compiti), ma attraverso una continua negoziazione delle relazioni di genere. I ruoli maschili e femminili si combinano nella relazione e i maschi e le femmine si influenzano reciprocamente e condividono insieme gli aspetti della vita sociale. Il modello relazionale recupera le modalità negoziali del modello “interazionista-simbolico” e il destino sociale assume una connotazione come “progetto di vita”. Da tutto ciò si evince che il genere può essere definito: un processo di costruzione dell’identità e della relazione con l’altro.

Per parlare dunque di genere, si è sottolineata l’importanza iniziale della differenza biologica, come determinante nella differenza di genere (Daly, Rich, O Brien, Gilligan). Il corpo sarebbe l’elemento importante rispetto alla costruzione della personalità. Per questi autori, il corpo e l’esperienza materna rappresentano le qualità delle donne: sensibilità, amorevolezza, pacifismo. Altri approcci ritengono che in questo modo si produce disuguaglianza e che si tratterebbe solo di identità rivendicativa femminile. La differenza biologica (maternità) non può essere valorizzata in una società a matrice capitalistica.

Il modello più attuale è quello definito: “gender studies”, che affida le differenze alla costruzione (Oakley, Scott, Nicholson) e decostruzione (Derrida, Foucault, Butler) sociale, che si realizza nell’interazione tra individui.

Anche un certo neofemminismo post-radicale, che si concentra su un ruolo femminile assoggettato al maschile come esercizio di potere, pare essere superato da un tardofemminismo che riporta nuovamente alla relazione.

Oggi le relazioni sono mutate. Si tratta di attuare nuove modalità interattive per ridefinire i ruoli, nel confronto con il contesto socio-culturale.

Tutto ciò può avvenire attraverso: a) il riconoscimento del soggetto dell’appartenenza ad uno dei due sessi; b) la ricerca della propria identità di genere nel contesto di riferimento. Può accadere che il processo incontri difficoltà di definizione, ed a questo punto è necessario agire sulle “agenzie di socializzazione” (famiglia, scuola, gruppo dei pari, mezzi di comunicazione), che diventano rilevanti durante la crescita dell’individuo.

Se la famiglia è la prima agenzia che deve stimolare il rapporto uguaglianza/differenza, senza incorrere già al suo interno in stereotipi, la scuola è determinante nell’attribuzione, costruzione e ricostruzione identitaria. Infine, il lavoro in cui i comportamenti sono dettati da una matrice sessuale con difficoltà di riconoscimento dei generi.

Se le società del passato avevano ruoli ben definiti, oggi occorre la combinazione di elementi strutturali e simbolici, sfidando la complessità della società, perché la definizione di maschile e femminile non è così differenziata. Il soggetto entra in contatto con una varietà di stili, mode, gesti e comportamenti su cui riflettere, anche perché l’individuo può modificarsi in relazione ai percorsi biografici scelti. Ci sono più modelli di genere, identità e ruoli sociali di donne e uomini, tutti frutto di ricerche personali.

Affidandosi al modello di “omogeneizzazione” dei comportamenti, che considerano poco le influenze esterne che agiscono sull’interiorizzazione di valori di riferimento, non si va molto lontano. Pensiamo all’affermazione dei transgender, che modificano del tutto le definizioni di genere: la differenziazione non può essere fondata su comportamenti stabili, ma dovrebbe forse riguardare uomini e uomini e donne e donne. È di nuovo importante recuperare la risorsa relazionale che conduce allo sviluppo di forme di reciprocità.

I “gender studies” sostengono che non ci sono maschi e femmine ma ci sono uomini, in senso lato, liberi di assegnarsi autonomamente il genere percepito al di là del loro sesso naturale. Le tradizionali categorie di maschi e femmine diventano così categorie mentali superate, inadatte a rappresentare la complessità sociale moderna.

Bibliografia di riferimento

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  7. P. Donati, “Teoria relazionale della società. I concetti di base”, FrancoAngeli, 2009.
  8. P. Donati, “Sociologia della relazione”, il Mulino, 2013.
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  12. S. Piccone Stella, C. Saraceno (a cura di), “Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile”, Il Mulino, 1996.
  13. E. Ruspini, “Le identità di genere”, Carocci, 2003.

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