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Napoli

è un miracolo materiale,

la faccia tesa

di chi spera senza la pretesa

di sperare

bastano pochi gesti

e la vita non è più solo la vita,

ma una vasta sceneggiata,

una santità degli imprevisti.

(Davide Rondoni, in O. Ragone, C. Sannino (a cura di), “Napoli nessuna e centomila”, la Repubblica, Guida, 2021, 182)

Non ho mai scritto di Napoli, forse per una sorta di prudenza nel confrontarmi con una società molto complessa e variegata, che certamente non permette astrazioni e neppure generalizzazioni. Ci sono stati tanti autori e libri, dalla saggistica alla letteratura, grandi scrittori, che hanno tuttavia rappresentato solo alcuni aspetti di Napoli, non certamente l’insieme delle tante contraddizioni: chi ne ha parlato bene e chi male; chi ha giudicato e chi ha giustificato.

Tanti e contraddittori giudizi.

Se ci affidiamo ad immagini stereotipate, il napoletano è così inteso: un uomo forte che sopravvive alle avversità; dotato di ironia e sorriso per sconfiggere la tragicità dell’esistenza; definito altruista in quanto aiuta chi è in difficoltà; propositivo perché reagisce e trova soluzioni quando affronta la sua esistenza; infine, un tipo furbo perché ha fatto proprio il vecchio adagio: “cca nisciun è fess!”.

Ma è ancora così? La modernità ha portato all’abbandono della visione “cosiddetta antropologica” che ha caratterizzato la storia del popolo di Napoli? Esiste ancora la napoletanità, concepita come “uno stato dell’anima, un modo di intendere la vita, di ricordare, di amare, un’attitudine allo stare al mondo in modo diverso dagli altri”

Ora giunge un volume importante, soprattutto per la varietà di voci e di prese d’atto, di racconti e di storie, che forniscono interessanti spunti per comprendere i tanti risvolti della città: “Napoli nessuna e centomila”, curato da Ottavio Ragone e Conchita Sannino.

La tesi di fondo è che non tutti, anche quelli che ne parlano diffusamente, conoscono la città, perché si presenta sempre con un volto inedito. Non è ricondotta ad un’unica immagine, per il susseguirsi degli eventi storici e delle differenti dominazioni, che fanno sostenere a Maurizio Molinari la tesi di un’identità frammentata. Il libro si avvale dei contributi di tanti scrittori ed intellettuali per raccontare la città che è tante città, con le sue differenti forme: predatrice e matrigna, ma anche tenera e materna, creativa ma anche accondiscendente, ferita a morte e resuscitata. Tanti sono i termini che si possono usare: anarchia, ferocia, disordine, epoi indifferenza alle leggi. Matteo Palumbo pone almeno due questioni antitetiche, volgendo uno sguardo alla storia e chiedendosi se aveva ragione Campanella, quando la definiva un’antitesi alla Città del Sole, perché l’ozio e la lascivia rendono i napoletani partecipi dei loro vizi e dediti a svolgere male gli uffici pubblici, oppure Basile e i suoi cunti, che evocano le fantasie meravigliose e i luoghi, lo scenario che trasforma la città in “una proiezione dell’anima”? Ovvero violenza e astuzia contrapposti a solidarietà e generosità, continuano ad essere tratti distintivi antitetici.

Roberto Andò sostiene che i napoletani sono plasmati da un vento benefico che soffia solo qui e fa credere che la vita sia sempre un’invenzione, dove il mito credibile è la dolcezza del vivere, che produce un teatro vivente, “un luogo in cui si ripete l’irripetibile e si sconfigge la morte”. Napoli è un esperimento a cielo aperto di un’umanità allo stato puro.

I napoletani vogliono sognare, chiosa Ruggero Cappuccio: sono gli artefici del sogno, come lo era Eduardo De Filippo, che li porta ad ingrandire i misteri e a far diventare inspiegabili gli avvenimenti storici, secondo una narrazione razionale. Entrano in gioco: teatro, musica, sentimento che va al di là della ragione, tutto ciò che ha stabilito un connubio perfetto tra città e sogno.

Poi ci sono le storie e le rappresentazioni dei vicoli della città e dei suoi abitanti, storie di uomini e donne e luoghi, che sono in stretta connessione e che i vari scrittori mettono in luce, parlando di realistici racconti di vita quotidiana. Versi e narrazione, immersioni negli stati d’animo, sentimenti, e tentativi di razionalizzare ciò che è impossibile fare.

Questa città è mille città, ognuna sovente impermeabile all’altra. E sotto ce n’è un’altra, culla del tempo che non passa mai, che continua a inquinare o esaltare il presente, senza sconvolgerlo mai. E lì sotto che ai morti si affida ogni pensiero sull’oblio e la memoria, un pensiero metafisico, di astrazione”, scrive Sara Bilotti. Marino Niola si sofferma sull’underground, sul cimitero delle Fontanelle, il chiaroscuro dei suoi sotterranei, dove ci sono le anime abbandonate di Napoli, le capuzzelle. Qui si rilevano le cerimonie misteriche precristiane che simulano la discesa agli inferi, ma anche il racconto di chi riceve in sogno l’anima del defunto.

Poi ci sono i luoghi che ti rimandano ai greci e ai Borbone, e ti conducono ad immaginare le mummie degli aragonesi che ci guardano nei portoni degli edifici nobiliari, scrive Antonella Cilento raccontando dei luoghi e delle tante bellezze. Ci sono i vicoli, che permettono di stare vicini per i ristretti spazi che rimandano “ad una comune cultura, sedimentaria e polifonica, conflittuale e talvolta solidale, nostalgica e ottimistica” (Maurizio De Giovanni). Rosario Esposito La Rossa introduce l’insieme di tribù napoletane che avvertono il senso di appartenenza quando si confrontano con un nemico comune. Non sono più le due Napoli di Rea, ma le tantissime tribù che si sono moltiplicate: esiste il Vico dei Miracoli, “dove non è difficile vedere un bambino comminare con un Dogo argentino e Speranzella che studia fuori dal balcone perché non vuol sentire sua madre che fa la puttana”. Lorenzo Marone quando si specchia nella città vede un “paesaggio di tragedia, ostile e pericoloso”, che diventa all’improvviso “terra di mendicanti”. E ciò perché la Napoli di oggi “in queste notti tiene in giro solo quelli senza casa”. Siamo nella città in cui anche Gomorra è diventato un brand, che vede i protagonisti attori di una tragedia classica: si propongono miti senza guardare alle sfumature, al movimento che permette di superare la condanna all’immobilismo (Antonio Pascale).

È dunque evidente che in un siffatto mondo non è possibile rivolgersi alla ragione per trovare spiegazioni, perché rivolgersi ad essa è anche avere fatti fermi e realtà omogenee, per potersi così affidare all’astrazione e all’analisi. Raffaele La Capria ammonisce proprio a non categorizzare: Napoli abita la storia e la geografia, trova la giusta combinazione tra differenza e omologazione, mantiene la sua umanità per affrontare le falsificazioni e la violenza, accetta il proprio passato per mantenere l’identità e così affrontare il presente. Cioè l’identità che si costruisce e si mantiene, e crea un mondo che pur con le sue sfaccettature fa definire napoletano il napoletano, cioè ogni individuo che si riconosce in questo termine. È una città che trae dalla sua storia la forza per creare un’identità con molteplici contraddizioni, perché rifiuta qualsiasi semplificazione e forse anche consolazioni nostalgiche. E ciò è evidente in Peppe Lanzetta, che compie quasi un’ode dedicata a Napoli: “sei stata tutto e il contrario di tutto, sei stata Roberto de Simone, ma anche i chiattilli della collina, sei Cinese ma non conosci la Grande Muraglia, sei Nigeriana ma non t’hanno mai vista partire, sei Maria Callas ma anche Maria Nazionale, sei una trans brasiliana che parla puteolano, sei un peschereccio con pescatori rumeni, ceceni … insomma ti prendo così come sei”. Giuseppe Montesano è convinto che si tratti di magia che scava la fossa alla razionalità o la fa danzare, agendo nel grottesco per far conoscere il senso della realtà. Manlio Santanelli a tal proposito si riferisce all’assurdo napoletano, cioè a quel modo di adeguarsi alle condizioni paradossali, in quanto è illogico e poco razionale argomentare su manifestazioni che affondano la loro origine nel mondo delle analogie. Tutto un assurdo di comportamenti, come la scritta “lotta continua” che diventa “Carlotta continua a fottere”, che non è certamente creatività e neppure il rilievo dei lascivi costumi di Carlotta, ma la neutralizzazione di un messaggio politico (si  era in clima elettorale).

Roberto Saviano ha avuto non pochi problemi con la città, è stato spesso tacciato di gettare fango e rilevare solo le sue nefandezze. Lo scrittore parte affermando che Napoli ti insegna a vivere con le sue regole, ed è questo un fatto quasi drammatico, ma poi quando te ne separi scopri quasi di rimpiangerla. La città è fondata sul “ricalcolo dell’imprevisto”, ovvero sul fatto che di fronte a un fatto subito si reagisce prendendo nuove misure: “l’imprevisto non solo è considerato un evento che molto probabilmente si verificherà, ma è anche ciò che sottrae l’uomo alla catena di montaggio che lo rende macchina”. Questa rapidità di affrontare le situazioni, fa sviluppare un’autonomia personale e una capacità di collaborazione con gli altri, che mancano in qualsiasi altro luogo dove magari vigono le regole dell’efficienza. Saviano rende un tributo d’amore a Napoli, quell’amore che acquisisci quando comprendi le regole minime che impongono di guardare chiunque come una persona, che cerca di entrare in contatto con te per condividere la condizione di essere cittadino di questa città in quanto si è parte di un corpo comune. In questo modo, credi di avere il controllo di ogni situazione, perché sei convinto che ci sia sempre una via d’uscita, un’alternativa, una scelta possibile. E questa potrebbe essere certamente una modalità importante di affrontare le difficoltà della vita.

Concludendo, mi affido alle parole di Sandro Veronesi quando sostiene che per avere un’idea di Napoli, della vera città, occorre “immaginarla”, cioè sognare e vedere scorrere i personaggi che sono reali e che si combinano con grande maestria con i luoghi che abitano, perché l’abitare è proprio il creare le condizioni per essere un uomo in una comunità mai statica ma in continua evoluzione, per il susseguirsi delle stagioni e lo scorrere inesorabile del tempo.

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