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In questo periodo un termine prevale su tutti: pace. Dal latino pax, è armonia, concordia, unione, che dovrebbe legare individui e popoli. Sembra però un’auspicata ma utopica condizione, un termine astratto, un’aspirazione, forse un’illusione. La evochiamo perché non vogliamo essere coinvolti, perché noi siamo civili, perché rispettiamo i diritti umani, perché vogliamo che finisca l’orrore della guerra; ed allora, tra ragione ed emozioni, sembriamo inermi, sconvolti e senza alcuna possibilità di porre fine a quella distruzione.

La domanda è: nella situazione attuale, quella della guerra di invasione della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina, quando si osservano immagini drammatiche, che saranno anche comunicate in modo parziale o a favore degli interessi dell’una o dell’altra parte, ma che esistono perché la guerra esiste, si può essere equidistanti, dal latino aeque distans, “ugualmente distante”? Si tratta di una posizione mediana nei confronti di due opposti concetti. È mantenere una sorta di neutralità, imparzialità tra due fazioni, due parti in conflitto. Questa è la definizione del dizionario De Mauro, in accezione politica.

Sulla pace sono tutti concordi, tutti auspicano un mondo senza guerra. Magari sulle modalità di ottenerla le posizioni divergono. Alcuni pensano che un conflitto aiuti la stessa affermazione della pace, anche se la pace dovrebbe indurre tutti ad accettare la sconfitta, perché non ci sono vincitori quando si confligge e perché nelle complesse società è difficile districarsi tra tutti i fenomeni politici, sociali ed economici messi in gioco. Altri pensano che la pace sia dialogo e possibilità di confronto e mediazione, e deve essere tale per affermarsi e si deve fare di tutto per ottenere questo scopo.

Torniamo alla guerra. Molti hanno evocato un dipinto, quello di Pieter Paul Rubens: “Le conseguenze della guerra”. Osservandolo bene, notiamo un affresco di straordinaria attualità, capace, attraverso la sua potenza espressiva, di farci sentire il dolore, la brutalità e la tragedia della guerra, e di farci riflettere sulla sua assurdità. Rappresenta allegoricamente le sofferenze subite dalle popolazioni durante le guerre, ed è un’attestazione di ripudio della guerra.

Al centro del quadro, un’allegoria della Guerra dei Trent’anni (1618/1648), realizzato dall’artista tra il 1637 e il 1638, spicca una donna dal corpo nudo e dalla pelle molto chiara. La giovane porta lunghi capelli biondi che scendono sulla schiena. In basso, a sinistra, due piccoli angeli la trattengono dalla gamba destra. La ragazza è aggrappata al braccio di un soldato dalla carnagione più scura: il guerriero indossa un elmo e una armatura; ha la spada sguainata e lo scudo rivolto verso l’avversario. Sulla sinistra, una donna anziana spaventata si lancia in avanti verso i combattenti. È seguita da un putto con in mano un globo di cristallo. Alle sue spalle si notano architetture classiche dalle alte colonne e una pesante porta aperta. Un angelo aleggia in alto sul capo della giovane bionda. I due combattenti si affrontano al centro. Quello di sinistra viene sbalzato in alto dallo scudo. Con la mano destra cerca di trattenersi al braccio del guerriero mentre sulla destra impugna una fiaccola. Inoltre, a destra, in basso alcune figure umane nude e indifese sono distese e riverse al suolo. Infine, il fumo della fiaccola si confonde con le nuvole scure.

Questa la descrizione.

L’allegoria è invece ancora più sorprendente. Il guerriero è Marte, che brandisce una spada e Venere è la donna, l’amore, che cerca di trattenerlo. Il dio, pur cercandola con lo sguardo, si dirige verso la Furia Aletto, simbolo della Discordia. Le creature mostruose alle sue spalle sono la peste e la carestia, che si abbattono in occasione delle guerre, le calamità che contribuiscono a renderne ancor più devastanti gli effetti e le conseguenze distruttive. Il libro, la cultura, è calpestato da Marte; non possono opporsi la Musica, l’Architettura e la figura femminile che simboleggia la Carità. La dama vestita di nero è l’Europa; con l’abito a brandelli alza gli occhi e le braccia al cielo, è stroncata dal dolore, come a supplicare l’aiuto divino. Essa appare quindi disperata dopo tanti anni di saccheggi, oltraggi e miserie, ed invoca dal cielo la pace. Ciò simboleggia il bisogno impellente che il continente ha di una tregua durevole e lo sperato ritorno alla pacifica quotidianità. Il dipinto ha colori cupi che rappresentano la tragedia. Solo nella parte sinistra, si nota un’apertura verso il sereno, almeno una flebile speranza.

Il messaggio è di grande pessimismo: nemmeno l’amore è in grado di frenare la cieca brutalità della guerra. Se Venere cerca di trattenere Marte, il dio della guerra, quell’uomo le sfugge; non accetta l’amore ma la furia selvaggia, cieca, spietata, che si accende e toglie ogni sentimento di umanità. Dunque la guerra appare rappresentata non solo come elemento emozionale ma come ripudio della stessa ragione, come rimozione di ogni valore etico.

L’evocazione di quel dipinto mi ha fatto pensare alla ricorsività degli eventi ed indotto a ricordare che, in qualsiasi epoca storica, uomini di ingegno, artisti e intellettuali hanno sottolineato che c’è un modo per cercare di abbandonare gli istinti primordiali e la brutalità di azioni di uomini che continuano ad affermare la forza e la violenza e rincorrono le forme più distruttive. Questo modo si chiama cultura, riflessione critica sulla vita e sulla quotidiana esistenza nel mondo.

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