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L’area che oggi costituisce il Cilento e il Vallo di Diano è stata caratterizzata da identità specifiche, che hanno permesso l’aggregazione della popolazione intorno a valori e aspetti di vita semplici e immediati, legati ad un’esistenza comunitaria.

Dalle ricerche territoriali, si è riscontrato che le comunità di questa zona sono simili alle società contadine, fondate su legami familiari organizzati sul modello agricolo, fonte primaria di sussistenza: si è instaurato un rapporto stretto con i prodotti della terra e il lavoro quotidiano.

Partendo da ciò, si è dato rilievo soprattutto a valori caratterizzati dal confronto continuo della comunità con se stessa, con la natura, con l’ambiente, con la storia naturalmente.

La dura quotidianità e la vita di lavoro e fatica, associate alla situazione climatica e geomorfologica del territorio, hanno permesso ai prodotti di questa terra di acquisire una propria tipicità: si tratta di risorse alla base della diffusissima dieta mediterranea, dichiarata dall’Unesco “Patrimonio orale e immateriale dell’umanità”, che per Ancel Keys determinava una bassa incidenza di malattie cardiovascolari grazie ad un cibo povero di grassi e proteine.

C’è da dire che le popolazioni di quest’area si sono alimentate dei prodotti tradizionali della terra: se da un lato non si sono mai verificate estreme punte di indigenza, dall’altro non ci sono state le tavole imbandite di abbondanti cibi, spezie e sapori forti.

Per fare un esempio, in queste zone nell’ottocento il pane era di frumento tra i benestanti, il ceto medio lo univa al granturco e la gente più umile faceva uso del pane di granone, germano, legumi e castagne. Per quanto riguarda la carne, quella vaccina era rara mentre più diffusa era quella di pecora, di capra e, nei mesi invernali, di maiale. Il pesce giunse tardi, ed era rappresentato soprattutto da acciughe e sarde. I vini e gli oli erano ottimi ed abbondanti; la frutta era molto diffusa, soprattutto i fichi dal sapore eccelso. La dieta quotidiana al tempo di Keys era costituita da erbe bollite, per metà soffritte, con poco olio e grasso. Erano soprattutto usati prodotti freschi, di stagione e coltivazioni locali.

I piatti e le tradizioni culinarie, che si sono affermati grazie all’utilizzo di questi prodotti, oggi sono un patrimonio che si cerca di riproporre e rivalutare per introdurre un concetto oggi molto di moda: quello di sovranità alimentare, che ben inteso si riferisce alla cultura di un luogo e alla sua diversità. Essa si connette alla salvaguardia di una certa tipicità, come ha sempre sostenuto Carlin Petrini, per rimarcare il valore dei prodotti protetti, orgoglio di piccoli produttori e piccoli centri rurali, riferendosi al recupero della stagionalità e al rapporto tipicità identitaria/produzione globale. In tal senso, la sovranità alimentare è da intendere come la libertà dei singoli territori di scegliere cosa e come coltivare e mangiare.

Se la comunità è la forma aggregativa più antica della storia ed è fortemente radicata sul territorio, è necessario individuare cooperazione e solidarietà, in quanto le risorse territoriali rappresentano la possibilità di un percorso comune in cui si pratica la reciprocità. Si tratta di singole individualità che si legano ad un luogo, dove la vera forza si ottiene quando gli interessi individuali si sviluppano nell’unione e nel benessere di tutti. Nella comunità la partecipazione si pratica con la presenza e con l’impegno, e le progettualità nascono dalla cooperazione e dal confronto.

Inoltre, si può certamente affermare che nel rapporto con il cibo si scopre anche un modello relazionale: è un elemento tangibile della continua relazione che mette in connessione la natura umana nella sua dimensione individuale e collettiva. Ed infatti, a tavola si instaura un rapporto di convivialità, coesistenza, condivisione, perché il cibo è cultura.

In conclusione, occorre ripensare l’identità come affermazione della tipicità locale ma anche scambio con altre realtà che racchiudono le loro specificità, per favorire un atteggiamento non inglobante, ma aperto e accogliente.

A tal proposito, è da sostenere che la cultura locale non deve essere trascurata, soprattutto perché il Cilento ha le risorse per la sua affermazione e il suo sviluppo anche nelle società in rapido cambiamento.

6 Responses to “Sguardi sociologici 9 / Il Cilento e l’identità alimentare”

  1. Sergio Mantile

    Interessante l’articolo e il libro cui fa riferimento. Ma forse, quello che mi piace di più è lo sguardo, acuto e appassionato, dello studioso che non arresta il suo lavoro solo quando ha finito il suo libro. Come se dicesse a sé stesso: “Ho detto!”, appagato di averlo fatto. No. Tu sei lo studioso continuamente al lavoro sul suo oggetto di studio!

  2. Alessandro

    Come al solito un articolo sociologico senza aggettivi inutili, molto interessante specie le righe a proposito del pane di tre tipi secondo le classi sociali. Grazie

  3. Alessandro

    L’, articolo è interessante non solo dal punto di vista sociologico, nessun aggettivo di troppo, i riferimenti ad Ancel Keys, specie, a mio avviso, le righe a proposito del tipo di pane nel rapporto con la classe sociale. Il Cilento spero rimanga legato alle radici del territorio e all’humus “umano” che conosco. Grazie

  4. Luigi Leuzzi

    I sapori ,gli odori di una cucina antica sono la memoria profonda di una comunità che stabilisce gli spazi ed i tempi di una coralità che non è solo cornice ma radice e fondamento di un codice morfologico e semantico dell’esserci
    Complimenti

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  Categoria: ricerche territoriali

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