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La festa del fuoco

 

Il rumore serve a spaventare e allontanare le potenze maligne, il fuoco a illuminare il cammino del nuovo anno, la luce celebra la speranza”. (Marino Niola)

 

La tradizione della festa è in molti luoghi particolarmente sentita dalla popolazione: le festività sono quasi tutte legate alla religiosità popolare e rappresentate attraverso un sistema simbolico-rituale. Due sono i momenti delle tradizioni festive: il primo riguarda l’elemento propriamente religioso, in cui un rilievo enorme ricopre il rituale liturgico dedicato al santo da festeggiare; il secondo è l’aspetto delle manifestazioni riferite agli elementi contadino-pastorali, in cui è messa in scena la rappresentazione della vita di un tempo. Ma accade anche che i due momenti si fondono: quello religioso, che cerca di abolire le espressioni paganeggianti, acquista a tratti significati legati alla cultura popolare, con il corredo di riti e magie, superstizione e fatalismo. (1)

Con l’inizio dell’anno, nel calendario rituale sembrano prevalere le espressioni pagane, i riti d’origine romana o celtica: si tratta dei lavori nei campi e della purificazione degli  animali per il prossimo avvento della primavera. E’ il caso del 17 gennaio e della festa in onore di Sant’Antonio Abate (la data presumibile della sua morte), che visse tra il 250/251 e il 356 in Egitto e fu uomo di preghiera e anacoreta. Il santo nel rito nordico è raffigurato con un cinghiale, in Italia invece l’animale diviene un maialino.

La festa è costituita da riti propiziatori preposti alla fecondità ed alla fertilità che si concretizzavano anticamente nella solenne benedizione degli animali sul sagrato della chiesa, offrendo doni in natura ai sacerdoti e un dolce benedetto ad uomini ed animali malati. Questi rituali non sono propriamente legati alla figura del santo, ma alla collocazione calendariale che associa questo periodo a funzioni profane.

Il culto di sant’Antonio fu ripreso da queste leggende e reso popolare soprattutto per opera dell’ordine degli Ospedalieri Antoniani, che ne consacrarono l’iconografia.

Il santo è considerato il guaritore dell’herpes zoster, il fuoco di S. Antonio, conosciuto sin dall’antichità come “ignis sacer” (“fuoco sacro”) per il bruciore che provocava. Il papa permise agli Antoniani, i suoi seguaci, il privilegio di allevare i maiali che circolavano tra cortili e strade, con una campanella di riconoscimento, senza che nessuno potesse toccarli. Il grasso serviva proprio a curare quel fuoco. La leggenda narra che il santo passeggiasse con il maialino e recava con sé il bastone degli eremiti a forma di T, la “tau” ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che allude al destino. (2)

Una leggenda vuole il santo aggirarsi all’inferno, per contendere al diavolo l’anima di alcuni morti: mentre il suo maialino creava scompiglio fra i demoni, lui accese con la fiamma infernale il suo bastone e donò il fuoco all’umanità. Per questo la festa di Sant’Antonio Abate assume un’aura sacrale: i falò hanno in sé i significati di purificazione, la rigenerazione della natura attraverso la distruzione di ciò che riguarda il periodo precedente, nel quale le giornate erano più buie. (3)

Queste caratteristiche antitetiche, morte e rinascita, hanno sempre rappresentato molteplici significati e simbolismi. Legato al fuoco, da ricordare il mito che vide Prometeo rubarlo agli dei per donarlo agli uomini: fu per questo punito e condannato a rimanere legato mentre un’aquila gli mangiava ogni giorno il fegato. Inoltre, nelle culture cristiane  l’inferno è caratterizzato dalla presenza del fuoco, perché esso era inteso come elemento purificatore; mentre le culture nordiche lo concepivano nella sua dualità, come generatore di vita ma anche distruttore della stessa. Infine, nei templi la fiamma era sempre accesa in quanto simbolo di sacralità. (4)

La festa del santo è anche la festa del fuoco. A Napoli i falò venivano accesi nelle strade,  utilizzando la roba vecchia gettata dai balconi fin dalle prime ore del mattino e per tutta la giornata, al grido di: “Menate, menate”, e ai passanti: “‘a sotto … levateve ‘a sotto”. Nella rigida serata invernale i fuochi accesi sono allegri ed euforici e permettono di riscaldarsi: “quando già parte della legna si è consumata e comincia da esserci un po’ di brace le popolane la raccolgono in scaldini di creta, poiché si dice che porti fortuna, e la portano a casa”. (5)

Il fuoco nella notte di Sant’Antonio è la stessa trasposizione dei fuochi di Natale o di quelli della notte di San Giovanni, con significati propiziatori e di protezione della comunità. Del resto, dalla tradizione orale si apprende l’uso “di spargere le ceneri nei campi quasi a riscaldarne il seme”: quel fuoco magico sarebbe capace di allontanare il male. (6)

Nell’Italia meridionale, il santo è chiamato “Sant’Antuono”, per distinguerlo da Sant’Antonio da Padova, che si festeggia il 13 giugno. Ebbe una grande influenza sul monachesimo occidentale, quando si diffuse l’ascetismo religioso e la vita monastica: furono sempre più numerosi coloro che abbandonavano il mondo per vivere nella solitudine dell’eremos, da cui eremita, oppure per associarsi insieme in comunità o cenobi e ricercare una comunione più intensa con Dio ed innalzarsi verso la santità.

Antonio, dopo aver abbandonato ogni ricchezza, fu spinto dalla ricerca di solitudine, trovando rifugio in una tomba scavata nella montagna. Da lì iniziò una lotta continua contro il demonio. Alternò interventi presso le comunità a lui devote e momenti di vita eremitica quando, coperto da un rude panno, si dedicava alla spiritualità, ricevendo di tanto in tanto un po’ di cibo per sopravvivere. Trascorse più di vent’anni sul monte Pispir, vivendo questa condizione. In questo luogo egli proseguì la sua ricerca di totale purificazione, pur essendo aspramente tormentato da crisi mistiche e, secondo la leggenda, dal demonio. Poi ebbe la visione di un eremita che passava la giornata tra la preghiera e l’intreccio di una corda. Da questo dedusse che occorreva lavorare per procurarsi il cibo e fare la carità. Crebbe il suo mito: molti suoi seguaci lo liberarono dalla sua solitudine e lo portarono a dedicarsi ai sofferenti operando, secondo la tradizione, “guarigioni” e “liberazioni dal demonio”. (7)

I seguaci di Antonio formarono due comunità, una ad oriente e l’altra ad occidente del fiume Nilo. I padri del deserto vissero in grotte sotto la guida di un eremita anziano e l’aura spirituale di Antonio. Visse i suoi ultimi anni nel deserto della Tebaide, pregando e coltivando un piccolo orto per il proprio sostentamento, e morì dopo aver superato i cent’anni. Venne sepolto dai suoi discepoli in un luogo segreto: le sue reliquie sarebbero state prima traslate nella città di Alessandria nel VI secolo, poi a Costantinopoli nel 670 circa. Nell’XI secolo il francese Jaucelin, signore di Châteauneuf, le ottenne in dono dall’imperatore e le portò in Francia. Il nobile Guigues de Didier fece costruire, nel villaggio di La Motte aux Bois (poi Sant-Antoine-l’Abbaye), una chiesa che accolse le reliquie nei pressi di Arles, in Provenza. Qui si costituì l’Ordine degli Ospedalieri per accogliere i malati affetti dal fuoco di Sant’Antonio. Per contrasti tra “Priorato” e “Cavalieri Ospedalieri”, la reliquia fu prima sottratta e solo nel XV secolo venne solennemente riposta ad Arles nella chiesa di Saint-Julien. (8)

Le reliquie rappresentavano la forma devozionale più importante per vivificare il culto dei santi: i fedeli in massa si prostravano davanti le sacre spoglie, rivolgevano preghiere e intonavano canti e inni per ottenere favori terreni e interventi taumaturgici. Dal momento che i sepolcri di santi e martiri erano pochi rispetto ai luoghi dove vivevano i fedeli, il mondo cristiano si ricoprì di frammenti di ossa o altri tessuti organici, oppure oggetti appartenenti ai santi. Le richieste erano enormi, ed allora dai frammenti si ricavarono altri frammenti, di dimensioni ridotte che venivano custoditi in cofanetti preziosi. Si scatenò una vera e propria caccia alle reliquie, si moltiplicarono le scoperte di parti di corpi di martiri e santi dispersi, che furono depositati nelle chiese. Il fenomeno fece emergere una fiorente attività commerciale. (9)

In Italia, molti sono i paesi che venerano Sant’Antonio e dedicano a lui solenni festeggiamenti. Le immagini del santo, solitamente raffigurato come un anziano monaco dalla lunga barba bianca, si trovano nei posti più vari: nei codici miniati, nei capitelli, nelle vetrate, nelle sculture lignee destinate agli altari e alle cappelle, negli affreschi, nelle tavole e nelle pale poste nei luoghi di culto.

Se nell’iconografia tradizionale Sant’Antonio è in compagnia di animali domestici come il maiale o ha a che fare con il fuoco, Paul Cezanne lo ha rappresentato circondato da donne procaci, simbolo delle tentazioni.

Nel Cilento il santo si festeggia in diversi paesi: a Vibonati, con la tradizionale processione per le strade cittadine, la messa, i fuochi pirotecnici e il concerto della banda. Da Sapri comincia il “cammino di Sant’Antonio”, una passeggiata a piedi dal centro fino al Santuario per assistere alla celebrazione eucaristica. A Torchiara ricorre la festa del protettore degli animali dove nella notte si tiene il tradizionale falò, in quanto protettore di coloro “che usano il fuoco”. Ortodonico, Perito e Omignano sono anch’essi legati alla tradizione di Sant’Antonio, come pure i centri di: Buonabitacolo, Casalbuono, Ogliastro Cilento, Sant’Antuono, Sanza, Sassano, Roccagloriosa. Ad Altavilla Silentina, l’appuntamento è con la manifestazione: “U fuoc r’ Sant’Antuon”, un incontro tra la tradizione e l’innovazione, ponendo in rilievo l’eredità di un evento folkloristico che dura nei secoli. (10)

 

Note:

 

  1. P. Martucci, A. Di Rienzo, 1999, “Il sacro e il profano”, Edizioni Studi e Ricerche, p.28.
  2. A. Cattabiani, 1988, “Calendario. Le feste, i miti, le leggende e i riti dell’anno”, Rusconi Libri, pp.125-133.
  3. “Sant’Antonio Abate, il fuoco, il maiale, la leggenda”, in http://terredicampania.it, 17.01.2018.
  4. C. Pont-Humbert, 1997, “Dizionario dei simboli dei riti e delle credenze”, Editori Riuniti, pp.105-108.
  5. V. Gleijeses, 1977, “Feste, Farina e Forca”, Società Editrice Napoletana, p.98.
  6. A. Di Rienzo, 1988, “Il ritorno del culto di Sant’Antonio Abate nella tradizione popolare meridionale”, Il Mezzogiorno Culturale, A. II – n.8.
  7. Cfr.: A. Cattabiani, cit.
  8. P. Pierrard, 1988, “Dizionario dei nomi e dei santi”, Gremese 1990, pp.30-31.
  9. S. Pricoco, 2005, “Dal concilio di Nicea a Gregorio Magno”, in G. Filoramo (a cura di), “Storia delle religioni. Il cristianesimo”, Laterza, pp.117-119.
  10. Cfr.: P. Martucci, A. Di Rienzo, 1999, cit.

 

 

 

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