Osservando le dinamiche populiste nelle nostre società, di fatto ci troviamo in presenza di un profondo paradosso: i movimenti così definiti, identificati con tendenze ideologiche di destra, pur vantando vicinanza al popolo fanno gli interessi dei più abbienti, riproducendo di fatto logiche neoliberali.
Ci sono anche i populismi di sinistra, soprattutto se ci si riferisce all’etimologia del termine che deriva dall’inglese populism: si è sviluppato in Russia con il proposito di raggiungere, attraverso propaganda, proselitismo e un’azione rivoluzionaria, il miglioramento delle condizioni di vita delle società rurali, delle masse popolari, affidandosi ad un capo carismatico (https://www.treccani.it/vocabolario/populismo/). Essi emergono da un’ideologia che si occupa degli interessi di gente comune, pongono l’attenzione sulle diseguaglianze economiche e sociali e si contrappongono alle élite ed istituzioni tradizionali: qualche esempio può essere individuato oggi in Die Link in Germania o Podemos in Spagna.
Ad ogni modo, il populismo di sinistra sembra avere difficoltà a creare una volontà popolare tale da incidere sul piano storico, mentre il populismo di destra è molto più vitale (Samuele Mazzoleni). Ecco perché negli ultimi tempi le analisi si sono soffermate soprattutto sulle forme populistiche di destra.
Recenti studi dimostrano che per spiegare il populismo occorre collocare l’analisi entro fattori culturali, identitari, anche se le dinamiche economiche paiono prevalere nella logica di “governo neoliberale dell’economia e della cosa pubblica”. Il caso italiano è emblematico: Meloni riduce le protezioni sociali e non si occupa delle esigenze dei lavoratori per dare priorità alle imprese, facendo emergere “la nozione neoliberale di merito sul principio di uguaglianza” (Giorgia Serughetti, Perché chi ha di meno vota per chi ha di più? Il paradosso del populismo di destra, MicroMega 4/2025, pp. 41-49).
Queste forme di populismo sono riconducibili all’“autoritarismo liberale”, una risposta ai fattori determinati dalla globalizzazione (disuguaglianze ed impoverimento delle popolazioni), realizzando una critica alla globalizzazione, che tuttavia non si traduce in rivendicazioni economiche, quanto piuttosto nella “contrapposizione culturale tra un noi e un loro”, avversando i diversi, coloro che lottano per l’ambientalismo, il multiculturalismo, i diritti umani e le uguaglianze di genere. Già Adorno, con gli studi sulle personalità autoritarie della fine degli anni quaranta, aveva intuito che si esercitava una aggressività proprio nei riguardi di coloro che si trovano più in basso nella scala sociale (immigrati, soprattutto). Nelle ricerche condotte in America, Norris e Inglehart hanno individuato queste reazioni prevalentemente negli uomini più anziani e meno istruiti, che hanno avversione verso i progressismi, gender, woke, la cancel culture, difendendo le norme tradizionali.
La filosofa Serughetti parla di una sorta di Giano Bifronte, ovvero affinità tra “il populismo della destra identitaria e il neoliberismo”. Esisterebbe una visione duale della società: popolo/élites, noi/altri, ma anche mercato/non mercato (neoliberismo). Il secondo elemento sarebbe l’approccio diretto, senza intermediazioni, con la delegittimazione dei corpi intermedi (sindacati, giornalisti), che caratterizza sia il populismo che l’economia di mercato. Sostiene l’autrice che anche Thatcher e Reagan erano riusciti a combinare nazione, famiglia, autorità e tradizione con individualismo competitivo e antistatalismo. Più che una sfida al neoliberismo, sembrerebbe invece una reazione alla politica progressista e alla variante liberal. Giano si alimenterebbe degli “aspetti distruttivi prodotti dal neoliberismo economico, sociale e politico”, esaltando “l’individualismo competitivo e le politiche a vantaggio dei più ricchi”. Valori familiari, nativismo e religione, politiche del law and order servirebbero a rafforzare le gerarchie sociali e a definire un conservatorismo che difende l’identità collettiva.
Serughetti conclude sostenendo un individualismo autoritario, contiguo con la società neoliberale ed al tempo stesso di impronta gerarchica e tradizionale, che di fatto vuole l’affermazione di “pretese individuali di coloro che formano una parte della collettività, contro tutte le altre”.
A questo punto, forse la definizione di populismo potrebbe essere attribuita a quella dualità che si esplicita tra “neoliberismo” da un lato e “democrazie liberali”, quelle che hanno prodotto in tanti decenni il modello sociale democratico degli Stati occidentali. Le forze che cercano di imporsi cercano la disgregazione della società, il discredito del bene pubblico, la svalutazione del politico, la mobilitazione di valori tradizionali, ovvero una azione contro tutto ciò che è stato fino a questo momento.
Di fatto, è la riduzione individualistica della società che produce reazioni proprio nei confronti dell’uomo dimenticato, marginale, che pretende risarcimento per mezzo del sacrificio altrui, producendo il riscatto individuando “una vittima altra da lui da parte di una pubblica autorità”. Certamente c’è una sofferenza, che si percepisce nel diffuso sentimento di delusione, disincanto, diffidenza che si trasforma facilmente in disprezzo e aggressività. È il nostro tempo, distante dalla vita degli uomini eppure presente nel loro spazio quotidiano (M. Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, 2019). Revelli sostiene che li abbiamo chiamati populisti perché “sembrano dar voce a (spesso cattivi) sentimenti popolari”, che si esprimono nella volontà di protesta e vendetta di un cittadino che “si sente deprivato del proprio scettro e punta a colpire dove fa più male”. La sua analisi si dipana attraverso il seguente ragionamento: con la crisi è iniziato il rancore, la rabbia e la paura che si prova quando non si comprende cosa sta succedendo. Si tratta di “una paura irrazionale ma comunque reale”, a cui la politica (soprattutto quella progressista) ha opposto un assordante silenzio ed ha prodotto sfiducia. Ed allora, “sentendosi ignorati molti si sono rivolti a forze nuove, che alle loro preoccupazioni hanno saputo dare risposte facili e per lo più reazionarie”.
Dopo quanto affermato, ecco che si possono individuare differenze sostanziali: forme identitarie, protezioni contro l’altro da sé, critica al neoliberismo (destra); giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, critica al neoliberismo (sinistra). Univoca è la critica al modello prevalente, differenti le sfaccettature che riguardano giustizia sociale da un lato e difese identitarie dall’altro.
Penso che questo sguardo possa offrire alcune risposte alle attuali domande sociali, anche se si tratta di spunti di riflessione per valutare fenomeni attuali che per loro stessa natura sono complessi e di difficile comprensione.
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